di Simona Degiorgi
Conflitto russo-ucraino a parte, nell’ultima settimana due sono state le notizie che hanno occupato principalmente la mia bacheca Facebook: il pugno di Will Smith a Chris Rock durante la serata degli Oscar e il femminicidio di Carol Maltesi ad opera del suo vicino di casa.
Questi due eventi, sebbene molto diversi da loro, hanno dei punti in comune e hanno come protagoniste due donne, nonostante, nel primo caso, si sia parlato solo in modo laterale di Jada Pinkett Smith e della sua malattia.
Vorrei dunque partire da questi due eventi e dal modo in cui sono stati raccontati dai giornali e commentati dagli utenti per abbozzare un discorso più generale, incentrato sulla necessità di cambiare il modo di parlare e soprattutto di concepire le donne.
Il giorno successivo alla serata degli Oscar sono apparsi numerosissimi articoli che descrivevano ciò che era successo durante le premiazioni. Alcuni di questi hanno provato a descrivere il gesto di Will Smith come un atto di “cavalleria” volto a difendere “sua” moglie, presente in quel momento in sala, dalla battuta del comico. Una battuta, peraltro, basata solo sull’aspetto fisico di una donna che, a causa di una malattia, perde i capelli e smette di rappresentare il modello femminile di desiderabilità a cui siamo abituati. Il pugno è stato visto da alcuni come un gesto romantico che lo stesso Will Smith ha cercato di giustificare dicendo che “l’amore ti fa fare pazzie”. Partendo dal presupposto la violenza non è giustificabile, il gesto di Smith rivela un tipo di mascolinità, tossica, di cui la nostra società è purtroppo ancora intrinseca. Il pugno, più che difendere l’onore della moglie, intende infatti difendere l’onore di Smith stesso che, venendo sua moglie attaccata, si sente in dovere di difenderla per non venire meno al suo ruolo di maschio alfa, protettore della donna e della famiglia.
Come detto anche in altri articoli e sedi, Smith avrebbe potuto reagire rispondendo a tono alla “battuta” (o meglio bodyshaming?), lasciare Pinkett Smith libera di decidere se reagire semplicemente alzando gli occhi al cielo – come ha fatto – oppure non facendo nulla, che è comunque una reazione.
La giustificazione inascoltabile di Smith al gesto violento – descritto come un raptus dovuto al troppo amore nei confronti della moglie – è però, a mio avviso, più preoccupante. La retorica dell’amore che fa fare qualsiasi cosa ed intende giustificare un gesto violento è utilizzata spessissimo anche per descrivere episodi di femminicidi.
Mi ricollego dunque al caso di cronaca che in questi giorni è forse più discusso: l’uccisione di Carol Maltesi.
È di poche ora la notizia che la motivazione che ha spinto l’assassino ad uccidere Maltesi sia stata la decisione della donna di trasferirsi altrove per avvicinarsi al figlio. Si tratta dunque dell’ennesimo femminicidio compiuto da un uomo che vedeva la donna come sua proprietà e non accettava la decisione di quest’ultima di andarsene. Non si è trattato dunque di un raptus né di un gioco erotico: la motivazione che ha spinto l’uomo a compiere il gesto è quella che muove la maggior parte dei femminicidi.
Motivazioni a parte, ciò che mi ha colpito in questi giorni è stato il modo in cui è stata narrata la vicenda dai giornali italiani. L’avvenimento è stato descritto nei minimi dettagli, in maniera molto cruda e disturbante, e l’attenzione è stata più volte posta sul lavoro di Maltesi, quasi questo fosse una giustificazione o un’attenuante al gesto dell’uomo. Il fatto che Maltesi lavorasse nell’industria del porno non ha difatti nessuna connessione con il suo omicidio e ha semplicemente aumentato i giudizi nei suoi confronti ed alimentato commenti a dir poco inappropriati.
Il continuo accentuare nei titoli e negli articoli il lavoro di Maltesi e la sua bellezza è, a mio avviso, fuori luogo anche perché suscita curiosità ed istinti ancora più inappropriati di fronte ad un omicidio. A tal proposito, propongo la lettura dell’articolo scritto qualche giorno fa da Maria Cafagna per WIRED ITALIA – “Carol Maltesi e la narrazione morbosa delle vittime femminili” – e che, secondo me, ben analizza questa dinamica.
Come sottolinea Cafagna nel suo articolo, sono infatti soprattutto le morti di giovani e belle donne ad essere descritte dai media italiani sempre più nei dettagli, rendendo la narrazione morbosa e priva di rispetto, al solo scopo di attirare l’attenzione e i click degli utenti.
Questi sono gli ultimi esempi di quello che ancora oggi, purtroppo, respiriamo quotidianamente in Italia.
Moltissime persone (e non solo uomini) hanno continuato a giustificare il gesto violento di Smith e ad elogiare il fatto che abbia difeso “la sua donna”. Il corpo delle donne continua ad essere quotidianamente oggetto di giudizio e commenti sia quando esce dai canoni estetici che la società ci ha prefissato sia quando li incarna perfettamente.
In Italia, il 40% degli omicidi è un femminicidio (Ziniti, La Repubblica, 22.11.2021) che avviene per mano di un partner, di ex o di un familiare/affetto che vede la donna come suo oggetto personale e non come una persona libera di allontanarsi quando lo desidera. Di fronte ad una donna uccisa continuiamo a leggere ancora commenti che giudicano comportamenti o modi di essere della vittima, invece che condannare unanimemente il carnefice.
Ancora nel 2022 ci troviamo a vivere in una società profondamente limitante e giudicante, soprattutto nei confronti delle donne che vorrebbero solo parità di trattamento ed autodeterminazione.