A cura di Daniele Rocchetti
Quello che sta accadendo nelle ultime settimane rappresenta una fase nuova che ci ha sorpresi e disorientati perché eravamo convinti che il peggio fosse alle nostre spalle e potessimo cominciare – anche grazie ai sostanziosi contributi europei che sostengono il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – a progettare la ripartenza. Invece siamo ripiombati in una situazione di incertezza che impedisce, di nuovo, previsioni a medio/lungo termine. Di nuovo uno shock che obbliga, anche nostro malgrado, a rimettere al centro la revisione critica di un modello che con la pandemia è parso andare profondamente in crisi. Un modello i cui capisaldi sembravano indiscutibili: il dogma della crescita (unico criterio per valutare il benessere), il paradigma tecnocratico, le radici culturali individualistiche e utilitaristiche.
Forse come diversi hanno suggerito da parecchio tempo più che ripartenza sarebbe necessario parlare di “nuovo inizio”. Ma la sfida è impegnativa e l’esito – ce lo siamo ripetuti più volte nei mesi scorsi – non è scontato. Che vuol dire che non saremo necessariamente migliori. Saremo diversi. E come saremo dipenderà anche da come ci porremo, dalle scelte che saremo in grado di fare o di non fare. Perché “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. (papa Francesco). Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank e Premio Nobel per la Pace nel 2006, nell’aprile dello scorso anno in lungo articolo aveva scritto che questa crisi ha aperto di fronte a noi due strade: o riportare il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo. Secondo lui il peso dell’insostenibilità sociale, economica, ambientale del mondo di prima dovrebbe portarci alla consapevolezza che quanto è accaduto ci sta offrendo inestimabili opportunità per un nuovo inizio. Perché “la crisi pandemica è una lente per leggere il nostro tempo, un telescopio per guardare più lontano. Non solo una sventura che interrompe una corsa da rimettere il prima possibile sui binari, ma una frattura che è anche una rivelazione, di limiti e insieme di possibilità. L’occasione per un avvenire inedito anziché per un divenire inerziale.”(Magatti-Giaccardi, 2020)
La vera novità dell’ultimo anno è il cambio di passo operato dall’Europa. Reso possibile da tre scelte inedite. Anzitutto, il “temporary framework“: la Commissione europea rende compatibili gli aiuti di stato contro le sue stesse regole sulla concorrenza per salvare le economie del Continente. In secondo luogo, attiva la “general escape clause“, ossia la sospensione del Patto di stabilità e crescita, di fatto smontando le regole con cui imponeva “i compiti a casa” e la politica di bilancio del “sangue, sudore e lacrime”, Infine, mette a terra proprio quello che, qualche anno prima, Draghi sollecitava; politiche di bilancio espansive di ausilio all’azione delle banche centrali. Insomma, e questa è una scelta politica prima che economica di grandissimo rilievo e futuro, l’Europa (prima con la BCE: ricordate il whatever it takes di Draghi? e poi quando viene autorizzato l’indebitamento per reagire alla pandemia) sceglie di salvarsi solo sospendo le sue stesse regole. Immaginando per sé stessa un nuovo futuro e nuovi paradigmi.
Che il Next generation Eu disegna – anche per il nostro Paese – attorno a due pilastri: un nuovo ambiente tecnologico (digitalizzazione) e l’urgenza della transizione energetica e produttiva (sostenibilità). Immettendo risorse finanziarie importanti per sostenere i necessari investimenti, il piano si propone di accelerare il cambiamento del nostro modello di sviluppo. I dati Istat sulla povertà italiana pubblicati qualche mese fa ci restituiscono, invece, la fotografia di un Paese in grande difficoltà. Nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019). (Dati Istat giugno 2021).
Tutto questo nonostante gli sforzi degli ultimi due Governi con l’insieme dei decreti ristoro (che, non va dimenticato, portano il debito pubblico italiano al 160% del Pil) e una moltitudine di strumenti di protezione (reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza, reddito di emergenza). Misure che hanno impedito alla piaga di essere ancora più estesa, ma non l’hanno curata. Il problema dunque che abbiamo davanti è mettere insieme queste due facce della realtà: un futuro sempre più avanzato e un presente nel quale troppi rimangono ai margini. Questione peraltro riconosciuta dallo stesso piano europeo che indica l’inclusione sociale come il ‘terzo pilastro’ da costruire.
Immaginare che il rilancio dell’economia possa lenire o addirittura annullare le sacche di sofferenza sociale è da ingenui o da economisti che ancora credono al valore benefico della “mano invisibile”, principio fondativo del capitalismo anglosassone. Che la spinta alla ripresa economica sia essenziale per combattere i gravissimi problemi di povertà che i dati ci segnalano è fuori discussione. Ma occorre essere ben consapevoli che la crescita è condizione necessaria, ma certo non sufficiente. Perché le domande da farsi sono: quanti di questi milioni di italiani in difficoltà sono in condizione di entrare a far parte del nuovo ciclo di crescita? E come verranno ripartiti i profitti dei prossimi anni? Il problema è che, in una società avanzata, la povertà – che si espande in fretta quando c’è la crisi e si riduce più lentamente e in modo non omogeneo quando c’è la ripresa – non è una dimensione ‘elastica’, come direbbero gli economisti.
Il Covid ha mandato in panne gli equilibri di quella ampia fascia di popolazione precaria che riusciva in qualche modo a sbarcare il lunario. Molte di queste persone avranno ancora le capacità e la voglia per rimettersi in gioco. Altre avranno più difficoltà. È chiaro allora che le misure di protezione sono necessarie per evitare che la sofferenza sociale esploda in rabbia. Ma è altrettanto chiaro che la povertà non è riducibile alla sola dimensione economica. Per dirla con Magatti, si potrebbe sostenere così: in una società avanzata le condizioni di povertà sono la calcificazione di una serie di fragilità: un livello di studio e una esperienza lavorativa inadeguate; una situazione familiare precaria (ad esempio famiglie con figli e con un solo genitore), la presenza di una patologia cronica invalidante o di una disabilità grave, la provenienza da un contesto urbano degradato o da una area interna, una condizione di marginalità professionale; giovani imprigionati nella ragnatela dei lavoretti e della gig economy e/o di dipendenza (alcol, droga, azzardo). Per combattere questi problemi la crescita non basta.
Né bastano i trasferimenti monetari (che pure vanno garantiti). Semplicemente perché la povertà ha a che fare con situazioni in cui a infragilirsi è la persona in quanto tale con la sua rete di relazioni primarie e secondarie. Ecco dunque che l’obiettivo dell’inclusione sociale di cui parla il piano europeo ha bisogno di essere assunto come criterio e parametro della stessa crescita. Tutti noi speriamo che il post pandemia coincida con l’apertura di un nuovo ciclo di sviluppo. Ma ciò avverrà solo se i benefici non andranno a vantaggio di una parte ristretta della società. Per ottenere questo risultato, occorre prima di tutto dedicarsi fin da subito alla cura delle persone in difficoltà e alla ricostruzione delle loro reti di relazione. Così che nessuno sia lasciato solo.
Lo stiamo vedendo: negli ultimi mesi, prima di questa recente ricaduta legata alla diffusione della variante, c’è stata una specie di euforia legata allo slogan della ripartenza. Chi può, si è rimesso a correre. Ma è difficile ripartire se hai le quattro gomme bucate. Chi sta bene, chi ha capacità, chi ha risparmi – e sono tanti – è chiamato a mettersi in gioco. Combattere la povertà non è compito solo dello Stato. Ma dell’imprenditore, dell’insegnante, del professionista… “L’importante è ricominciare a guardare avanti cambiando il nostro modo di ragionare: la crescita economica è un bene, ma non può essere pensata a prescindere dalle persone che abitano una comunità e dal rapporto con la natura. E questo non è uno slogan, né un auspicio buonista. È la presa d’atto della correzione dello sguardo che la pandemia ci chiede. La povertà dunque è un problema e una sfida: è possibile una crescita che sia davvero inclusiva? È questo il problema che dobbiamo, ancora una volta, risolvere. Se lo faremo – e possiamo riuscirci – alla fine ci guadagneremo tutti. E soprattutto saremo più orgogliosi di noi.” (Magatti 2021)