A cura di Matteo Marsala
Ho cominciato a scrivere questo articolo, cercando di fare il punto sulla situazione in Medio Oriente, ad un tratto però mi sono posto una domanda dalle sfaccettature molto scivolose: ma a me, cosa interessa?
Magari sarà facile aggrottare la fronte davanti a questa domanda, ma allora provate a rispondere: a noi cosa interessa? Basta sconnettersi da internet e tutto quello che esiste se leggo articoli, guardo video su quello che sta succedendo di colpo cessa di esistere. Non ci sono bombe nelle nostre strade, i bambini possono giocare in tranquillità, a parte qualche campanilismo goliardico, colui che abita nel paese affianco al mio non è mio nemico. Quello che vedo e leggo sui media non appartiene alla mia realtà.
E allora cosa mi interessa?
Siamo davvero capaci di provare empatia? Riusciamo davvero a umanizzare le immagini di distruzione e di morte che vediamo o la nostra indignazione si ferma ad una presa di posizione politica? Rispondiamo sinceramente…
Ho letto molti articoli che facevano puntualissimi riassunti sul perché degli scontri, e la situazione nelle città di quei territori, abbiamo assistito, nel nostro paese, a scaramucce politiche prive di una vera presa di posizione (e prive di vero e proprio senso se vogliamo dirla tutta). Ma l’unica cosa su cui riesco a concentrarmi è la sostanziale indifferenza alle immagini di morte che vediamo, succede con i migranti, sta succedendo ora con gli scontri in Palestina, magari si, qualche post indignato lo scriviamo eh, ma poi la realtà è che la nostra quotidianità continua come se niente fosse.
Il fatto che uomini, donne e bambini muoiano a causa di altri uomini e donne abita il nostro cuore giusto il tempo di finire poi a parlare di altro con un volo pindarico che si porta via la nostra umanità. Questo perché “alla vista può divenire abituale quello che al pensiero resta inconcepibile” (Giuliano Zanchi, segretario generale Fondazione Bernareggi) ed è questa la radice di ogni guerra: abituiamo il nostro sguardo a vedere l’altro solo come “l’altro” e non più come essere umano. Facciamo fatica a tenere alta la tensione nell’immaginare la vita dei volti che vediamo sui media, ci è facile estraniarci pensando che tutto ciò che vediamo non appartenga alla nostra realtà, fatichiamo a riconoscere di essere una parte e non il tutto; è da qui che deve partire la nostra conversione: rifacciamoci “prossimo”. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire dalla nostra concupiscenza, e fare un passo verso ciò che non è “noi”, verso ciò che fino ad ora ci è estraneo. Rimanere umani deve significare tenere sempre viva dentro di noi quella parte che va oltre i nostri ruoli, la nostra provenienza e il nostro gruppo, quel centimetro dentro di noi in cui è rinchiusa la nostra passione per la vita che per definizione non può concepire la morte dell’altro.
Umanamente la guerra è inaccettabile, se la guerra continua ad esserci vuol dire che non stiamo dando il giusto peso alla nostra natura umana, ci stiamo concentrando su altro, ma che ci piaccia o no, noi siamo solo umani, uomini e donne, è il massimo che possiamo essere ed è l’unica cosa che siamo chiamati ad essere. Tutto il resto è artificio. Nostra invenzione. Ciò che c’è di vero, sono la nostra vita e le nostre emozioni, non possiamo eclissarci a causa di convenzioni o stupide mire di potenza, tanto resteremo sempre e solo uomini e donne, fratelli e sorelle, parte di tutto più grande di noi. È questa dimensione che deve guidare la nostra vita, allora torneremo a essere capaci di parlare di vita e non di strategie politico-militari, torneremo capaci di riconoscerci nell’altro e riconoscerlo anche nelle differenze, torneremo forse a sentire il peso anche della morte che non vediamo e a farci carico anche delle vite che non incontreremo.
“C’è qualcosa al di sopra della strategia ed è la scelta morale – è qui che cominciano la pace e la guerra”
Shimon Peres