A cura di Silvia Giordano
“La verità è nella realtà e non nei sistemi” J.B.
L’altra sera ho fatto un viaggetto di ricognizione a cavallo fra arte e storia. Sempre nella comodità stanca del divano, la nuova frontiera dell’intrattenimento. Sempre lottando contro la dipendenza da schermo, le diottrie in calo, la fiducia nel tempo della scienza (e dovremmo dire, per completezza, della buona politica) che forse potrà salvarci dalla sospensione della (fu) vibrante vita culturale.
Ho visto un film che mi ha ricordato l’importanza dell’arte nei processi di catarsi della storia, della società, dell’umanità stessa. Da qui mi sono ritrovata catapultata in un ricordo che, proustianamente, mi ha riportato all’eremo di Santo Spirito a Majella, nel paese di Roccamorice in provincia di Pescara, dove risiede metà della mia famiglia d’origine e dove con sempre più difficoltà ritorno ogni anno a trovare parte delle mie radici. Con grande bisogno di trovare un collegamento fra i punti frammentati di questo puzzle abbandonato che è il settore culturale da oltre un anno, sono sprofondata in pensieri amari su come il regime imposto dal virus e dai modelli insostenibili palesati con l’epifanica beffa del 2020 stia paralizzando le opportunità di produrre arte. E quindi dichiaro sin da ora che questo articolo vuole farsi frammento nel puzzle, senza pretese, senza un pensiero quadrato, ma solo per raccogliere la consolazione di cui è capace l’arte, seppur in differita.
Opera senza autore
Il mio svago durato tre ore l’altra sera s’intitola “Opera senza autore”, film del 2018 dello sceneggiatore e regista Florian Henckel von Donnersmark. Premetto che quest’ultimo suo lavoro non mi ha rovesciata emotivamente come “Le vite degli altri”, che nel 2006 guadagnò l’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Eppure, questo dramma sentimentale appeso fra la Seconda Guerra Mondiale e la Germania divisa della ricostruzione si è rivelato un ottimo spunto di riflessione che ci dice moltissimo sullo stato ovattato dell(e) art(i) odierno.
La trama apre sulla figura di Kurt Barnert bambino che, nella Dresda del 1937, viene introdotto all’amore per l’arte dall’eclettica e visionaria zia Ellie la quale lo porta a vedere una mostra promossa proprio dalla propaganda nazista per dileggiarne il contenuto avanguardistico e dirompente. Storicamente, la “Entartete Kunst”, “l’arte degenerata” fu una mostra itinerante che ricomprendeva opere di stampo modernista accusate dal regime di corrompere l’avanzamento della razza ariana: dal protoespressionismo di Edvard Munch, all’Espressionismo dei Die Brücke, con la sua denuncia al progresso e alle contraddizioni della società moderna in chiave nichilista, dal cubismo al futurismo, l’inventario delle opere messe all’indice è denso di capolavori di inizio Novecento. La denuncia faceva leva sulle deformazioni spaziali, la critica alla guerra, l’ispirazione all’arte tribale africana, quel primitivismo bandito dai principi classicisti dell’arianesimo. Proprio come nella prima scena del film, il pubblico veniva guidato a osservare le opere con quella stessa espressione deformata e indignata che avrebbe dovuto fomentare lo sdegno e il distacco dalla creatività congedatasi dalla norma, sposando un’idea di arte al servizio della nazione e del trionfo di una razza pura. Un’operazione decisamente fallimentare su Ellie e il nipote.
Il piccolo Kurt ritroverà la zia, il cui destino si intreccia con i tragici disegni dell’eugenetica e di “igiene razziale”, nell’amore per Elisabeth, figlia del professor Seeband, legato al protagonista proprio per quella relazione recisa con l’ancora giovane parente nel corso della sua infanzia. Con qualche salto temporale, la vicenda prosegue poi nella Germania della DDR, dove Kurt si forma in accademia e si metterà a malincuore al servizio dell’arte realista socialista per la lotta proletaria. In effetti il regista si ispira alla parabola del pittore Gerhard Richter, “artista tedesco nato a Dresda nel 1932, formatosi nella Germania sovietica e passato a Ovest per amore della pittura astratta” (Opera senza autore – Film (2018) – MYmovies.it), sancendo di fatto la dignità autoriale di un Bildungsroman cinematografico. Se la seconda tappa di questa parabola lega inevitabilmente il talento di Kurt al volere delle istituzioni, la liberazione, unica possibilità in quegli anni di sfuggire alla paralisi, avviene con la fuga. Nell’evasione dell’artista, si materializza il mio ricordo di una gioia: la visita rituale al Santuario nel cuore della Majella, dove con mia grande sorpresa scopro un grande dell’arte contemporanea, Joseph Beuys, nel film il professore e direttore dell’accademia di Düsseldorf dove Kurt libererà il suo vero talento artistico.
Don’t forget Joseph Beuys
Sarà suggestione, sarà per l’intensa attività onirica da zona rossa, oppure l’amarezza nello scoprire il 4 marzo scorso le nuove disposizioni sulla chiusura delle scuole in Lombardia, o ancora quel simbolico 27 marzo come giornata di promessa riapertura dei teatri in caso di zona gialla (…), ma il vago senso di prevaricazione del virus sulla vita che percepisco nella quotidianità di una nuova primavera che fatica ad arrivare ha lavorato molto sul piano dell’inconscio dopo la visione del film. Uno spiraglio si è aperto sul personaggio del professore di Kurt, interpretato dal celebre Oliver Masucci (la serie Netflix “Dark”, l’Hitler de “Lui è tornato” etc…), ispirato alla figura di Joseph Beuys (1921-1986), che fu davvero docente presso la Kunstakademie di Düsseldorf. Nel mondo pre-pandemico, ho conosciuto questo artista in una mostra su un eremo incastonato nei monti abruzzesi nel luglio del 2017 e d’improvviso si è aperto un modesto “segno sul muro” woolfiano fra le possibilità di raccontare e di donare che il lavoro di quest’uomo straordinario ancora offre. La mostra, Don’t forget Joseph Beuys. “Difesa della Natura” in Abruzzo e oltre, curata da Giorgio D’Orazio, organizzata nell’ambito della seconda edizione di Eremi Arte dall’Accademia di Belle Arti dell’Aquila ripercorre quel passaggio dell’artista tedesco nella sua operazione “a difesa della natura” nel territorio abruzzese. Beuys, insieme all’impegno per la sostenibilità ambientale, va certamente ricordato per essersi distinto nella sua arte multidisciplinare – dalle installazioni al linguaggio performativo, dalla pittura alla scultura – e per la capacità di restituire il potere sciamanico dell’arte stessa, forse grazie all’episodio biografico dell’incidente aereo che nel 1944 lo mise – secondo una leggenda vera per la potenza della sua influenza sull’artista – nelle mani salvifiche di una comunità di nomadi tartari sul Fronte orientale, aneddoto che nel film il suo alter ego racconta proprio al protagonista Kurt, rivelando come il feltro e il grasso furono suoi alleati nella lunga convalescenza di quei giorni.
A quell’episodio sarebbero da attribuire la cifra stilistica materica nelle proprie opere, la ricerca di verità nell’arte povera, il senso stesso dell’arte nella ricomposizione del dolore. Come all’ascolto del protagonista nel monologo di Beuys, le immagini della vera ricerca identitaria, libere da condanne propagandistiche di risultare narcisisti o egoriferiti, riemergono nella passeggiata sui dirupi ventosi e assolati dell’estate di quattro anni fa, in quel senso di libertà e di valore prezioso che l’arte sola riesce a restituire ai luoghi e all’incontro fra esseri umani. Così, da un’esperienza cinematografica domestica, torna vivo il ricordo di quei passi nella natura, la quantità di documenti, citazioni e opere fotografate nella caverna nascosta fra le cime degli Appennini.
“Il teatro è come dio, e in più esiste”. La relazione in sordina fra arte e potere
La relazione fra arte e potere, tema che sorregge l’impalcatura narrativa del film di von Donnersmark, è storica come l’inizio della civiltà, quantomeno quella occidentale. Oggi questo rapporto è messo in crisi da un sistema che, in modo esponenzialmente più forte, dichiara apertamente di avere altre priorità per la società. Per dirla come Antonio Rezza, “questo è un virus intellettuale”. Nelle ultime settimane l’artista ha rilasciato diverse interviste sul tema del rapporto fra teatro e potere, fra teatranti e ristori, fra povertà culturale e sofferenza del talento. Su Teatro.it, a un certo punto cita il pensiero di Artaud, che torna centrale nel racconto della Germania post-bellica, soprattutto nella condanna che il grande regista e teorico del teatro francese rivolge alla Rivoluzione di ispirazione proletaria, liquidandola come una “rivoluzione di castrati” perché basata su un processo di “meccanizzazione” – La crudeltà della parola. Leggere Antonin Artaud – Limina | Rivista Culturale Online. Oggi il problema è ben oltre: viviamo una vera e propria paralisi dei processi produttivi, in una dimensione in cui l’arte indipendente non solo non può esistere, ma nemmeno ripensarsi (se non, ben inteso, con mezzi propri) perché non ci sono dei veri e propri “ristori” pubblici ad essa dedicati che, parafrasando Rezza, sono proprio l’antitesi della ricerca di verità artistica in forma autonoma. E quindi, quale forma d’arte può accadere in un clima che continua a vivere nel divieto assoluto di presentare il lavoro al pubblico, di tornare a incontrare l’altro, se non sempre in forma virtuale? Pure, fra le possibilità di produrre e di presentare in Italia siamo in un beffardo buffering infelicemente bloccato sulla homepage della tanto celebrata “Netflix della cultura”, la piattaforma “ItsArt”.
“L’unica cosa che mi preme è il colloquio con la gente: l’arte m’interessa solo nella misura in cui mi dà la possibilità di comunicare, di stimolare”, sempre Rezza. La premura dell’incontro è da sempre tema centrale del teatro e dell’arte in senso ampio, forse perché proprio in questo miracolo dell’incrocio di sguardi e corpi riusciamo a completare quella ricerca di verità come specchio sul reale. Nel film, è grazie all’incontro del grande Beuys che Kurt riuscirà a spogliarsi del formalismo per cercare la sua vera natura estetica, il suo vero io, che altro non è se non la verità profonda che cerchiamo nelle nostre variegate umanità.
Non appena il virus rimarrà (forse) un brutto ricordo, mi auguro di tornare presto all’intensa verità di quell’appuntamento, anche laico e senza pretese di epifanie improvvise. Intanto rimangono gli approdi alle forme che ancora ci nutrono a distanza, cercando di conservare con cura quei frammenti da ricomporre nel tempo desiderato delle possibilità.
Sitografia:
Antonio Rezza: la quarantena e il teatro a destra e a sinistra – Post teatro – Blog – Repubblica.it
Arte e Potere: il Mecenatismo da Lorenzo il Magnifico a Solomon Guggenheim | Imesi
Chi è Joseph Beuys – Don’t Forget Joseph Beuys (abaq.it)
Diego Bianchi intervista Antonio Rezza a Propaganda Live – YouTube
DON’T FORGET JOSEPH BEUYS – Tesori d’Abruzzo
“Entartete Kunst”: la mostra nazista che condannava l’“arte degenerata” (finestresullarte.info)
Joseph Beuys – Biografia e opere a Caserta – Arte.it
La crudeltà della parola. Leggere Antonin Artaud – Limina | Rivista Culturale Online
Opera senza autore – Film (2018) – MYmovies.it
Roccamorice,:all’eremo di Santo Spirito presentata mostra su Joseph Beuys – YouTube
V&A · Explore ‘Entartete Kunst’: The Nazis’ Inventory Of ‘Degenerate Art’ (vam.ac.uk)