A cura di Michele Tallarini
« Présenter la Méditerranée telle que je la conçois:
un lieu de mouvements autour d’une grande surface bleue »
Sabine Réthoré, cartographe contemporaine, Marseille
Il mare e il suo riflesso: Des habitants autour d’une surface bleue
Visto dall’alto, stampato su una carta geografica o immortalato da una foto satellitare, il Mediterraneo non è che “uno stretto fuso che si allunga da Gibilterra all’istmo di Suez e al Mar Rosso”[1], placido e definito rispetto alle altre distese blu che lo circondano. E se di queste ultime non ha la vastità, sulle mappe a cui noi europei siamo abituati occupa comunque il centro del foglio. Le radici di questa centralità affondano nella storia e nella geografia dei continenti e dell’uomo: è proprio sulle sponde di questo grande lago salato, infatti, che le prime civiltà hanno prosperato e che sono nati modelli e stili di vita che ancora oggi sono alla base delle nostre vite.
Il Mediterraneo è così visceralmente legato a noi, è talmente nostrum, che la sua immagine ci è perfettamente riconoscibile, insieme a tutte le idee che da essa derivano; noi italiani, in particolare, ci percepiamo in primis come mediterranei, e le nostre idee producono faglie mobili che attraversano tutta l’area: c’è un’Italia mediterranea fatta di coste, porti e stabilimenti balneari, un’Europa mediterranea, più fragile e scomposta rispetto a quella nordica rigorista e organizzata e, infine, vi è un confine netto e profondo, che attraversa il mare tagliandolo al centro e che è il prolungamento di quel limes che divide il mondo in un Nord e in un Sud più politico-economici che geografici.
In particolare per quest’ultimo, il solco che divide i due continenti sembra essere netto e invalicabile, una spaccatura che divide mondi impermeabili, un noi da una parte e un loro dall’altra. La redazione di Limes – rivista italiana di geopolitica si spinge a identificare questa linea come confine tra “Ordolandia” e “Caoslandia”: il mondo dell’ordine da un lato, dall’altra l’area dove si concentrano i conflitti, le attività terroristiche e dove si assiste alla progressiva dissoluzione degli Stati.
Carta di Laura Canali, 2020
Pur essendo una divisione affascinante, supportata da dati oggettivi e che fornisce una matrice efficaceper interpretare la realtà e i suoi mutamenti (si vedano ad esempio le vicende libiche che negli ultimi anni hanno contribuito a spostare verso Nord la linea del caos), personalmente la ritengo non del tutto esaustiva per spiegare la complessa geopolitica mediterranea: indubbiamente c’è altro. Ci sono, ad esempio, i programmi di cooperazione e sviluppo, gli accordi commerciali, le conquiste e le politiche di sviluppo che, seppur fragili, si oppongono al Caos. E, soprattutto, ci sono le persone e le culture millenarie che abitano le tre sponde del Mediterraneo e che da millenni ne plasmano i contorni e le dinamiche.
Quel che è certo è che mai come ora la concezione di un Mare Nostrum, teatro di scambi tra abitanti attorno a un’unica superficie blu, sembra essere lontana. In effetti, forse, lo è stata solo ai tempi dell’Impero Romano, e ancora oggi in qualche modo paghiamo il pegno di questa visione: il Mediterraneo si è infatti sempre contraddistinto più per la sua eterogeneità che per l’unitarietà della pax antico romana. Probabilmente non c’è una porzione di mondo che abbia visto un così intenso fiorire di civiltà, scambi, conquiste, mescolamenti di popoli ed etnie: nel mediterraneo allargato sono nate le prime forme di vita collettiva organizzata, le sue sponde hanno accolto i tre principali monoteismi, numerose civiltà ne hanno cercato il dominio. Non meno importante, democrazia e filosofia proprio qui hanno visto la luce.
Una storia, insomma, che ci mostra un mare che sfugge alle generalizzazioni e che ci restituisce un mosaico variegato di culture, tradizioni e modi di essere. Forse, l’eterogeneità che percepiamo e alla quale cerchiamo di mettere degli argini attraverso definizioni affrettate è capibile solo considerando il Mediterraneo come spazio e non come semplice frontiera. Le popolazioni costiere, abituate a vivere fronte mare, capiranno quello che intendo: il mare è il luogo in cui si e attraverso cui si concludono gli scambi, le persone si incontrano, le idee circolano. Non un limite, dunque, ma una possibilità. Ma allora, oggigiorno, come riconsiderare questo spazio?
Il Mediterraneo ribaltato
A volte, per cambiare prospettiva tocca abbandonare il quadro abituale precostruito e farsi aiutare da materie che sembrano lontane dal contesto. In tal senso, una dei progetti più convincenti di ri-pensamento dello spazio Mediterraneo in cui mi sono imbattuto nell’ultimo periodo non viene da un analista, da un militare o da un attivista politico, bensì da una artista-designer.
Sabine Réthoré, Méditerranée Sans Frontières, 2011
Sabine Réthoré vive e lavora a Sète, in Francia, dove si occupa di cartografia. Con il progetto Méditerranée Sans Frontières, iniziato nel 2011, compie un’azione tanto semplice quanto rivoluzionaria: orientando la carta del Mediterraneo sull’asse Ovest-Est, eliminando i confini politici e mettendo al centro il mare rispetto ai continenti l’artista ri-conferisce al Mediterraneo la funzione di spazio attivo e trait d’union tra popolazioni. L’operazione che più lascia stranito lo spettatore è proprio la nuova disposizione geografica, che elimina la divisione Nord-Sud, avvicinando l’Africa all’Europa, ridisegnando le distanze e le rispettive relazioni tra sponde: appena passata Gibilterra, Spagna e Marocco appaiono prossimi, con il mare ridotto a uno stretto corridoio; Il canale di Sicilia si presenta per quello che effettivamente è: un lembo risicato di mare che ci separa dalla Tunisia, con l’isola italiana che mostra la sua posizione centrale, con tutta l’importanza strategica che ne consegue (e che quasi sempre viene dimenticata dai policy makers nostrani); persino l’Egeo, teatro della millenaria contrapposizione greco-turca, che assume spesso i contorni di uno scontro di civiltà, appare come un grosso golfo, vergine e costellato di isole
In verità, quello che ci appare come un gesto rivoluzionario lo è solamente in funzione della nostra cultura e dello sguardo che essa ha sul mondo. Fin dalla sua nascita, infatti, la cartografia non ha mai semplicemente rappresentato il territorio, ma si è sempre fatta portatrice di idee, visioni, proiezioni di forza. Di esempi in tal senso ce ne sono a centinaia, e non è possibile riassumerli qui: ci basti però prendere in considerazione come la proiezione di una sfera su una superficie piana porti sempre ad una deformazione, si tratti di distanze, angoli o proporzione tra aree. Il modo in cui un disegnatore decide di riprodurre queste distorsioni, quali prendere in considerazione e quali no, come attuare correzioni, perfino quali colori scegliere, non è mai solo una scelta tecnica ma anche e soprattutto politica. Uno tra gli esempi più eclatanti è sicuramente la deformazione, nella proiezione di Mercatore (la più utilizzata in cartografia), che distorce le superfici ingrandendole verso i poli, facendo risultare aree come l’Africa infinitamente più piccole di quello che sono in realtà.
Anche la disposizione che vede il Nord posizionato in alto, probabilmente la caratteristica cartografica che più è entrata nel nostro vissuto quotidiano, è in realtà convenzionale ed è legata alle rotte di navigazione, che prendevano la stella polare come riferimento: moltissime culture in passato ne hanno adottate differenti, in funzione della visione del mondo che avevano e che volevano comunicare. Ad esempio, nella famosa Tabula Rogeriana (1154) del geografo arabo Muhammad al-Idrisi, stabilitosi tra l’altro nella Palermo di Ruggero II, il sud è posto in alto, dando alla mappa uno strano aspetto ribaltato. Allo stesso modo, nel Mappa Mundi di Hereford, datato tra il 1276 e il 1283, viene rappresentata la storia della cristianità in chiave geografica, con Gerusalemme al centro e con l’Est verso l’alto.
Muhammad al-Idrisi, Tabula Rogeriana
E’ evidente, quindi, quanto visione del mondo e sua rappresentazione siano in rapporto riflessivo, influenzandosi vicendevolmente: una cultura produrrà una carta geografica in base a come vede, vive e domina un territorio e, allo stesso tempo, quella carta andrà a influenzare la percezione che quella stessa cultura ha di sé e del mondo (quasi sempre rafforzandola). è proprio per questo motivo che iniziative di rottura come quella della Réthoré assumono un’importanza capitale nel concorrere a creare la nostra visione del mondo e dei rapporti che costruiamo con esso. Al di là dei pur essenziali dati oggettivi (politici, geografici, economici), infatti, a volte un ribaltamento di prospettiva, anche “traumatico” e che proviene da ambiti non prettamente geografici, ci porta a riconsiderare il nostro posto nel mondo, le nostre relazioni e rapporti con territorio e vicini. Ad un livello più ampio, può portare i governi a costruire politiche diverse, rivedendo strategie e progettualità.
E proprio in tal senso, quello della Réthoré si presenta non come un semplice lavoro artistico, ma come un vero e proprio progetto politico che, parafrasando la presentazione fatta dall’artista sul suo sito web, è un “pretesto, che non ha altre finalità se non quella di tessere dei collegamenti tra le nostre [del Mediterraneo n.d.a.] città basandosi sull’aspetto visuale, che può essere utilizzato come strumento per creare un contatto tra istituzioni, tra associazioni, tra mediterranei”. L’artista immagina di allestire, in ogni comune che partecipa al progetto, una sala con il pavimento ricoperto dalla sua carta del Mediterraneo e con ai muri degli schermi che trasmettano simultaneamente da tutti i luoghi gemellati: uno spazio d’incontro, dunque, dove si possa riscoprire il nostro essere mediterranei, intessere relazioni, conoscersi e superare le differenze.
Quale cooperazione nel Mediterraneo?
Al di là della proposta artistica della Réthoré, tra le sponde del mediterraneo prevale il dialogo o lo scontro? Seguendo il flusso di informazioni della cronaca quotidiana, sembra imporsi il secondo: le Primavere Arabe hanno ceduto il passo al caos , e l’intera area è caduta, dopo il disastro libico, in una spirale di instabilità che difficilmente troverà soluzione nel breve periodo; il Medio Oriente continua ad essere una delle aree più calde del pianeta; i rapporti della Turchia di Erdogan, seppur membro della NATO, e i suoi vicini europei sono ai minimi storici a causa dell’intervento della prima nel conflitto siriano, del dibattito sui diritti civili e sulla condotta adottata nei confronti dei migranti. Oltre a ciò, il Mediterraneo è diventato teatro di un’immigrazione continua e disperata, destinata a minare e deteriorare ancora di più i rapporti tra le due sponde.
Se da un lato la situazione sembra sempre più vicina a un crollo, con la linea di Caoslandia che spinge verso Nord, dall’altro la cooperazione tra le due sponde pare aprire a nuove possibilità: economiche, sociali e di dialogo. In prima battuta, la vocazione europea alla cooperazione internazionale, sia pubblica che privata, vede la presenza di progetti sempre più strutturati ed efficaci, che puntano a lasciare sul terreno expertise e strumenti di sviluppo. In secondo luogo, l’intera Africa, pur tra mille contraddizioni, sta crescendo ed è destinata ad imporsi come nuovo attore sullo scacchiere internazionale: sono proprio i paesi che si affacciano sul Mare Nostrum che sembrano trainare questa crescita e a presentarsi sempre più come soggetti in grado di far sentire la propria voce. In ultimo, ci si sta rendendo conto di quanto le sfide contemporanee siano sempre più globali: si pensi alla voce in capitolo che possono avere i paesi del Sud su temi quali il cambiamento climatico, la produzione di energie rinnovabili, la tutela delle aree marine mediterranee, la cooperazione commerciale. In futuro, che ci piaccia o no, saremo costretti sempre di più a dialogare con i nostri dirimpettai: non farlo significherebbe condannare quel piccolo angolo di mondo che è il Mediterraneo ad essere ancora più vulnerabile e inerme rispetto ai grandi cambiamenti globali. E allora, al di là della retorica, è davvero necessario ri-considerare lo spazio in cui viviamo, le relazioni che lo animano, le differenze e le affinità dei popoli che lo abitano. E se questo lo necessita, ben venga anche un ribaltamento.