“Io nun me lego mai, catene nun ce n’ho!
Aggregate si voi, io so andove finirai
In Cina, in Perù o a Timbuctù!
Ma nun baccajerai vedrai!”
Romeo’s Swing (La Canzone di Romeo), dal film Gli Aristogatti (Walt Disney, 1970)
Da qualche mese a questa parte ho una piccola inconfessabile ossessione che risponde al nome di una città che, più di ogni altra, si trova sul confine tra reale e immaginario: Timbuctù[1].
Tutti noi, almeno una volta, l’abbiamo sentita nominare; tuttavia, alzi la mano chi è in grado di localizzarla su un planisfero. Dove si trova? Negli ultimi tempi ho rivolto questa domanda a diverse persone, raccogliendo, perlopiù, sguardi interrogativi: nelle steppe dell’Asia come l’altrettanto leggendaria Samarcanda? In qualche paradiso caraibico? Nell’Oriente più estremo? Ma, soprattutto, esiste veramente?
La difficoltà nel darle una posizione (anche mentale) precisa rende la misura di come essa si collochi su quella soglia che delimita il sogno, il mito e la realtà concreta: la percepiamo, ma non riusciamo a darle forma; il nome ci è famigliare, ma non abbastanza da richiamare delle immagini nitide; sentiamo che in qualche modo fa parte della nostra cultura, tanto da apparire perfino in un film per bambini[2], eppure ci sfugge.
Può darsi sia stato questo suo trovarsi sul confine che ha spinto il motore della mia curiosità: come se si trattasse di un qualcosa di lontano ma allo stesso tempo vicino, che ci costringe a confrontarci, inaspettatamente, con alcuni aspetti del nostro modo di percepire il mondo intorno a noi. Scopriamola, dunque.
LA CITTA’ REALE.
Andando subito al sodo, sì, Timbuctù esiste. È una città con strade, case, palazzi, biblioteche e abitanti reali. Si trova (guarda caso) su quel confine naturale che è il Sahel, più precisamente nel Mali centrale, a una ventina di chilometri dal fiume Niger.
Sì, esiste. Fonte: Google Maps
L’ambiente sul quale sorge non è certamente tra i più ospitali: il clima desertico regala temperature superiori ai 40 gradi nei mesi estivi, una forte escursione termica e una siccità terribile. Eppure tali condizioni sfavorevoli non hanno impedito la formazione, nel XII secolo, di un primo campo di appoggio per i nomadi Tuareg, poi sviluppatosi come vero e proprio centro stanziale. In ragione della sua posizione strategica, crocevia del commercio carovaniero trans-sahariano, fiorì e prosperò sotto i regni del Mali (XII secolo), i Tuareg (dal 1443) e i Songhai (dal 1469). La città, in particolar modo, si affermò come centro economico e culturale in seguito all’annessione all’Impero del Mali sotto Mansa Musa[3], che ne fece la perla del suo impero, grazie anche al poeta e architetto Abū Isḥāq al-Sāhilī[4], che il sovrano conobbe durante il suo leggendario pellegrinaggio a la Mecca e che volle fortemente in città. Grazie all’intervento dell’Imperatore, inoltre, Timbuctù divenne uno dei principali poli islamici dell’Africa Occidentale: fiorì come centro universitario e fu richiamo di eminenti studiosi, arrivando a rivaleggiare, sotto questo punto di vista, con città importanti come il Cairo.
Dopo il periodo aureo, la città conobbe una fase di decadenza successiva alla sua conquista da parte di un esercito di Mori provenienti dal Marocco, che la governarono sino al XVIII secolo. Dopo successivi passaggi ai Tuareg e ad altre popolazioni, e anche a causa dell’abolizione della schiavitù e allo spostamento sul mare delle principali rotte commerciali, che diedero il colpo di grazia all’economia della città, Timbuctù perse definitivamente lo status di città principale dell’Africa Occidentale e dell’Islam, tanto che quando arrivarono i colonizzatori francesi nel 1894 trovarono una città in rovina e semi abbandonata.
LA CITTA’ IMMAGINATA.
Non è semplice condensare in poche righe le tappe e le motivazioni che, stratificandosi nel corso dei secoli, hanno contribuito a creare l’immaginario di una Timbuctù mitica, inarrivabile e scrigno di inenarrabili ricchezze.
Il processo di mitizzazione coinvolge e riguarda sempre soggetti altri rispetto all’oggetto idealizzato, che viene caricato delle aspettative e dei canoni culturali di chi lo osserva o immagina. Nel caso di Timbuctù, noi europei vi abbiamo riversato per secoli i nostri sogni ed incubi, passioni ed aspettative, stereotipi e speranze: è per questo che i luoghi che entrano nel mito, seppur lontani ed esotici, dicono sempre qualcosa su di noi. Le città invisibili[5] non portano mai narrazioni provenienti dalla voce dalle persone che effettivamente le vivono.
Tale processo, per quello che riguarda l’Occidente, è cominciato intorno alla seconda metà del XIV secolo, con la pubblicazione dell’Atlante catalano[6], probabilmente il portolano[7] medievale più importante giunto fino a noi. Tra le illustrazioni dell’Atlante, infatti, in corrispondenza dell’odierno Sahel si trova la figura di un Re nero, assiso sul suo trono con scettro, corona e un’enorme pepita d’oro tra le mani: si tratta del già citato Imperatore Mansa Musa.
L’Atlante catalano. Fonte: Wikipedia.org
È la prima rappresentazione del sovrano di cui abbiamo notizia, e reca sicuramente gli echi del suo leggendario pellegrinaggio a La Mecca (1324-1326), durante il quale, con il suo seguito di 6000 uomini, 12000 schiavi e 80 cammelli, distribuì una quantità d’oro talmente incredibile da, si dice, causare in Egitto una crisi inflazionistica che sarebbe durata 12 anni, dimostrando così il suo status di sovrano ricchissimo e potente.
Nell’Europa medievale, dove le notizie esterne, e la stessa concezione del mondo (soprattutto riguardo la sua estensione e la geografia di Asia ed Africa) erano oltremodo incerte, il seme dell’idea di una El Dorado al di là del Sahara germogliò e crebbe robusto.
La regione, al pari dei vasti territori centro ed estremo-asiatici, si popolò, nell’immaginario europeo, di creature mostruose, regni ricchissimi, popolazioni spaventose: antipodici ed esagerati, sia in senso positivo che negativo, rispetto alla cristianità.
In verità, è da precisare come anche gli Arabi non furono immuni alla fascinazione per Timbuctù: snodo all’estremità delle loro rotte carovaniere, la città, a seguito dello sviluppo culturale e architettonico voluto da Mansa Musa, divenne un polo importante per l’Islam, mantenendo comunque un’aura “esotica” e lontana rispetto ai centri politici e religiosi “canonici” musulmani. A riprova di ciò, è da riportare la reazione di ibn Baṭṭūṭa[8], viaggiatore e grande giurista islamico marocchino che, in visita in città, si scandalizzò nel trovare un luogo di piaceri che ben poco si addiceva allo status di centro dell’Islam[9]. Ancora, dunque, costruzioni mentali di soggetti altri, che si scontrano con la realtà di una città ben più complessa (perché, appunto, reale) rispetto a quella immaginata.
Tornando a noi occidentali, il mito di Timbuctù sopravvisse ai secoli e si intensificò in epoca coloniale, quando si scatenò una vera e propria corsa, finanziata dalle varie società cartografiche nazionali, alla El Dorado del Sahel. L’impresa non era facile: raggiungerla da Nord significava attraversare il deserto del Sahara; il percorso Sud si stendeva invece dalla costa del Senegal francese seguendo il corso del Niger fino al centro dell’odierno Mali. Entrambe le vie erano irte di pericoli e con scarse possibilità di successo: molti tentarono (qualcuno perfino ci riuscì) ma il primo a farvi ritorno per portare notizie (e, dunque, una narrazione)[10], fu nel 1828 il francese René Caillé[11]. L’epopea ebbe una vasta risonanza in Europa ma, ancora una volta, la realtà trovata in loco tradì le aspettative: l’esploratore non vi trovò oro e immense ricchezze, ma una città in rovina, con costruzioni di fortuna affiancate agli antichi palazzi in disfacimento. Tale sensazione di smarrimento di fronte alla realtà del luogo è ben riassumibile nelle parole di Felix Dubois[12], altro esploratore che entrò a Timbuctù nel 1894, al tempo della presa da parte dei francesi; in un primo momento, vi è lo stupore per la magnificenza della città:
«truly she is enthroned upon the horizon with the majesty of a queen. She is indeed the city of imagination, the Timboctoo of European legend»[13].
Rappresentazione di Musa I in un particolare dell’Atlante catalano
Tale sentimento, tuttavia, lascia il posto alla delusione, non appena superati i confini cittadini, di fronte alla città in stato di abbandono:
«We have entered the town, and, as behind the scenes of a theatre, behold! all the grandeur has suddenly disappear. It is another scene now, equally impressive, but on account of its tragic character rather than its beauty. […]Instead of obliterating the image of these ruins, this spectacle bites it more deeply. What is passing here? what has passed here? I asked myself in disconcerted bewilderment»[14].
Questa sensazione di smarrimento accomunerà tutti i viaggiatori che, nel corso degli anni, raggiungeranno Timbuctù: niente oro, niente grandezza, niente magnificenza. Solamente una città-ombra rispetto a quella immaginata: il mito, alla fine, crolla.
A onor del vero, è storicamente appurato come nella città, di oro (principale motivo della secolare fascinazione europea), ve ne fosse sempre stato poco: il metallo prezioso era sì presente a Timbuctù, ma veniva estratto altrove e transitava in città, arricchendola, solo in virtù del suo essere tappa obbligata sulle vie carovaniere del Nord Africa: non una El Dorado in senso stretto, dunque, ma un’importante centro commerciale che fondava la sua ricchezza sulla sua gente (di provenienza ed estrazione diversissima), sul suo essere luogo di scambio, di cultura, di biblioteche e di letteratura colta, fattori che la rendono ancora oggi una città diversa da tutte le altre nel Sahel. E, pur tuttavia, ancora oggi il turista che visita la città ne resta deluso: «a Timbuctù non c’è niente», dice. Niente che ne testimoni i suoi antichi fasti. Ed è proprio in questa sua dimensione doppia che risiede la sensazione di smarrimento che si prova quando il mito entra in contrasto con l’evidente, rivelandoci una realtà che in qualche modo sentiamo nostra ma che non afferriamo completamente . Sintetizzando con le parole di Marco Aime:
«ecco la mancanza. Timbuctù è una città, una dimensione che l’occidentale sente sua, che sente appartenere alla sua storia, non è un villaggio sperduto nella savana. Una città con un grande passato che però non è come ci si attende che sia. Timbuctù assomiglia a uno specchio deformante: riflette sì la nostra immagine, ma con lineamenti e forme diverse e, come in ogni specchio, la capovolge»[15].
È proprio questo sentimento che ci permette di intuire come le città invisibili, immaginarie e immaginate, entrate nel nostro immaginario collettivo senza poter essere afferrate completamente, ci dicano molto di più di noi stessi, del nostro passato, delle nostre paure e speranze, della nostra cultura e del nostro modo di guardare il mondo. Anche, in ottica contemporanea, del nostro modo di essere turisti e di intendere il paesaggio, sempre più guidati da preconcetti e da itinerari stabiliti, che non tengono conto della ricchezza vera dei luoghi (ad esempio, delle mille tradizioni culturali presenti a Timbuctù)[16] ma che, in mancanza di segni riconoscibili (un palazzo, un monumento) ci fanno dire che «non c’è niente». La condizione del turista moderno, insomma, sintetizzabile poeticamente con le parole di un film-documentario di Gianni Celati:
«allora c’è uno che mi ha chiesto”cosa siamo venuti a vedere qui?”. Perché certuni vanno in viaggio e guardano solo quello che gli hanno detto di guardare, e se non gli hanno detto cosa devono guardare si sentono persi. Ma io mi chiedo: è meglio sentirsi persi o vedere solo quello che ti hanno detto di guardare?»[17]
EPILOGO: TIMBUCTù OGGI, UNA PERLA AL CENTRO DI UN INCENDIO.
Tutto ciò che ho scritto nel precedente paragrafo sulla mitica città del Sahel è frutto, ahimè, di una conoscenza non diretta ma mediata: da anni, infatti, la Timbuctù reale è di fatto interdetta ai visitatori stranieri[18]. La città, come tutta la zona, è stata investita dai venti del fondamentalismo islamico ed è in stato di guerra praticamente permanente. È il 2012 quando i jihadisti prendono la città distruggendone parte dei suoi mausolei, della sua arte, delle sue biblioteche. Da allora, la regione precipita in una spirale di violenza, instabilità politica e crisi sociale che ancora oggi non vede fine. Come prima del XIX secolo, dunque, essa è raggiungibile solo attraverso l’immaginazione.
Le cause del tracollo nella regione sono molteplici: la povertà endemica aggravata dalla desertificazione, le contese tribali e tra popolazioni nomadi e stanziali, le istanze indipendentiste nei confronti di un governo a Bamako troppo distante e disinteressato alle questioni del centro Mali (Azavad per i locali), l’incredibile quantità di armamenti che si sono riversati sulla regione successivamente alla caduta di Gheddafi in Libia. Tutti questi fattori hanno soffiato sul fuoco del fondamentalismo, che, dal dicembre 2012, ma specialmente negli ultimissimi anni, si è trasformato in un incendio che sta travolgendo anche gli stati vicini (in particolar modo il Niger e il Burkina Faso).
La moschea di Djinguereber. Fonte: Google Images
Anche l’Occidente sembra non essere insensibile alla minaccia: l’operazione Barkhane, lanciata dai francesi nel 2014 promette di riportare stabilità nei paesi del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e persino la Corte Penale Internazionale dell’Aja nel 2015 ha condannato il pianificatore della distruzione dei mausolei e della moschea di Timbuctù, riconoscendone l’importanza per la cultura mondiale. La situazione, tuttavia, resta instabile e vicina a un possibile tracollo.
Le tragiche vicende del Sahel, al di là delle implicazioni politiche e pratiche che riguardano anche noi, forse dovrebbero interessarci anche in ragione del rapporto, benché mitico e immaginario, che la nostra cultura ha da secoli con Timbuctù: una città che la nostra coscienza collettiva ha plasmato e che da essa è stata plasmata; una città sulla quale abbiamo riversato sogni, aspettative e, attraverso i primi viaggi per raggiungerla, i nostri sforzi fisici, politici ed economici; una città, insomma, che più di quello che sembra racconta la nostra storia e il nostro modo di vedere il mondo, anche contemporaneo, e di rapportarci con esso; una città, insomma, che appartiene un po’ anche a noi.
CONSIGLI DI LETTURA.
Condensare in qualche pagina la formazione di un mito (l’abbiamo visto) così radicato nella nostra coscienza collettiva è sicuramente compito arduo. Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio il volume Timbuctu di Marco Aime (Bollati Boringhieri) che, oltre al pregio di essere accessibile e molto godibile, analizza i motivi e gli antefatti storici che fanno della città una meta mitica. Se si è interessati invece alle testimonianze dirette, è facilmente acquistabile in formato ebook Viaggio a Timbuctu di René Caillé; allo stesso modo, è disponibile (gratuitamente) on-line Timbuctoo the mysterious (traduzione di Timbuctoo la mystérieuse) di Felix Dubois. Per chi è attratto dalla Timbuctù vista dal mondo islamico sono reperibili in rete il Tarikh es-Sudan e il Tarikh al-fattash, testi sicuramente meno accessibili al lettore europeo ma che rappresentano testimonianze importantissime.
Essenziale per la scrittura di questo articolo sono state, poi, l’opera di Italo Calvino Le città invisibili (Mondadori) e le opere di Gianni Celati, in particolare Avventure in Africa (Feltrinelli) e il documentario Strada Provinciale delle Anime.
Per rimanere aggiornati sulla situazioni in Mali e, in generale, nel Sahel, le risorse in rete sono varie e facilmente reperibili: tra le tante mi sento di consigliare il Sipri e l’International Crisir Group.
[1] Il nome può essere reso in diverse varianti, tra le quali Timbuctu, Timbuctoo, Timbuktu, Timbouctou, Tombouctou. Ho scelto quella con la “u” finale accentata in quanto ritengo sia la più comprensibile, e più immediatamente pronunciabile, per un lettore italiano.
[2] Per la cronaca, Timbuctù è anche il luogo dove viene spedito, chiuso in una cassa, il perfido maggiordomo Edgar al termine del lungometraggio animato.
[3] Musa I del Mali, meglio noto come Mansa Musa (1280-1337) , è stato il nono Imperatore del Mali. È considerato l’uomo più ricco della storia.
[4] Abu Ishaq Ibrahim Al-Sahili (1290–1346), nato il al-Andalus (denominazione della penisola iberica durante il dominio arabo), fu principale architetto dell’Impero del Mali sotto Mansa Musa. Tra le sue opere più importanti,che contribuirono a rendere la città uno dei poli principali del mondo islamico, vi sono la Moschea di Djinguereber (o Grande Moschea), la sala delle udienze e la residenza dell’Imperatore.
[5] Il riferimento è ovviamente alla celebre opera di Italo Calvino, che mi è stata indispensabile per la stesura di questo articolo, nonché fonte di ispirazione e di comprensione delle dinamiche che l’immaginazione e il mito hanno sul nostro modo di vedere, e vivere, le città.
[6] Il cosiddetto Atlante catalano (1375 ca.), è uno dei portolani più importanti giunti fino a noi. Di autore ignoto, si suppone appartenga a Abraham Creques e a sua figlio Jahuda, della Scuola Cartografica di Maiorca. Attualmente è custodito nella Bibliothèque Nationale de France.
[7] Con portolano si indicano le mappe e i manuali per la navigazione costiera e portuale. I primi portolani risalgono al medioevo, ma è a partire dal ‘300 che, grazie anche all’affinarsi delle tecniche di raffigurazione geografica, che si diffusero e divennero strumenti efficaci per la navigazione.
[8] Ibn Baṭṭūṭa (Tangeri, 25 febbraio 1304 – Fès, 1368 o 1369), è stato un viaggiatore, storico e giurista marocchino considerato uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi.
[9] Riguardo le reazioni di ibn Baṭṭūṭa e, in generale, sull’idea che il resto del mondo islamico aveva di Timbuctù, si veda l’interessantissimo capitolo a lui dedicato in: M. Aime, Timbuctu, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 130-148.
[10] Volendo essere precisi, e sottolineando le contraddizioni che spesso popolano e hanno popolato la nostra visione del mondo, vi furono innumerevoli europei (almeno in senso geografico) a raggiungere, a vario titolo, la città prima di Caillé: si tratta di tutti quelle persone nate nella penisola iberica al tempo della denominazione araba; europei di fatto ma non considerati tali per ragioni culturali, tra i quali figurano, come abbiamo visto, l’architetto Al-Sahili, e anche l’esploratore e geografo andaluso Leone l’Africano.
[11] René Caillié (Mauzé, 1799 – La Gripperie-Saint-Symphorien, 1838) è stato un esploratore francese. Nel 1828 divenne celebre per aver raggiunto, poco dopo Alexander Gordon Laing (che però non fece ritorno), Timbuctù. Per i suoi meriti ricevette la Legion d’onore.
[12] Albert Félix Dubois (16 Settembre 1862 – 1 Giugno 1945) è stato un giornalista e esploratore francese famoso per i suoi viaggi nell’Africa francese occidentale.
[13] F. Dubois, Timbuctoo the mysterious (trad. di D. White dall’originale francese Timbuctoo la mystérieuse), Longmans, Green and co., New York, 1896, p. 209.
[14] Ibid., pp. 211 e 213.
[15] M. Aime, op. cit,. p. 86.
[16] In tal senso, si veda ancora l’opera di Marco Aime, che a più riprese presenta la varietà culturale (e le contraddizioni) di Timbuctù e della sua gente, al di là dei circuiti del turismo contemporaneo.
[17] Strada Provinciale delle Anime, regia di G. Celati, Italia, 1991, durata 58’.
[18] La Farnesina sconsiglia i viaggi, a qualunque titolo, in Mali a causa della pericolosità, specialmente nella regione di Timbuctù: http://www.viaggiaresicuri.it/country/MLI