A cura di Giulia Bertomoro e Simona Degiorgi.
L’epidemia che stiamo affrontando in questi giorni sta facendo emergere tutte le criticità del sistema in cui viviamo. La Natura sembra avvertirci che è venuto il momento di cambiare il nostro modello di sviluppo perché non è sostenibile: non è possibile distruggere interi ecosistemi, deforestare intere aree e sfruttare il suolo pensando che non vi siano conseguenze.
Questa emergenza deve essere accompagnata da una attenta riflessione che deve portare ad un nuovo modo di vivere, più in sintonia con la Natura. La presunzione che l’essere umano sia un sistema diverso e parallelo alla Natura sappiamo essere erronea: siamo parte integrante del sistema naturale, interdipendenti e interconnessi.
Queste sono alcune delle riflessioni affrontate da Alberto Acosta durante una open talk organizzata dall’Università di Bologna pochi giorni fa.
Alberto Acosta è un attivista, economista e politico ecuadoriano che si occupa tra i vari argomenti diritti della Natura e degli indigeni. Da sempre pensatore di sinistra, vicino al pensiero marxista e convinto sostenitore del movimento anti-globalizzazione, Acosta è stato Ministro dell’Energia e delle Miniere dell’Ecuador (2007). Lo stesso anno, è stato inoltre eletto Presidente dell’Assemblea Costituente per la stesura della rivoluzionaria Costituzione del 2008 che ha reso – non senza contraddizioni – il buen vivir un principio istituzionalizzato.
Immagine a cura di Marta Scalvi – Instagram: @marta_scalvi
Secondo Acosta, il COVID-19 non sta facendo altro che accentuare e rendere evidente una “crisi civilizzatoria” già da tempo presente, frutto dell’antropocene, del capitalocene, del patriarcato e del razzismo.
Tre sono gli elementi principali – sociali, politici ed economici – che risaltano nell’analisi da lui effettuata.
Il primo punto interessa la narrazione dominante di ciò che sta accadendo. Le parole che i media utilizzano sono parole di guerra: parlano di un “nemico invisibile”, di “armi” da utilizzare, di “soldati e militari”. Le conseguenze? Questa narrazione oscura la realtà.
Non siamo chiamati ad essere soldati, né a sparare contro il nemico, ma ad essere cittadini e cittadine – se abbiamo la fortuna di esserlo – responsabili verso la nostra vita, quella delle altre persone, e verso il futuro. Inoltre, l’utilizzo di un vocabolario di guerra oscura la radice del problema – che come vedremo a breve – è la nostra (non) normalità.
Manifesto. “È una pandemia, non è una guerra” (Fonte: https://twitter.com/dinamopress)
Il secondo elemento che emerge è la logica del potere. I governi sembrano oggi essere più vicini alla logica dell’economia piuttosto che a quella della salute[1] e le logiche neoliberali tendono a prevalere sopra ai bisogni primari delle persone. Basta osservare la modalità con cui stanziano fondi ed aiuti in un periodo di emergenza.
Infine, il virus sta mettendo a nudo le disparità sociali e l’ineguaglianza del mondo in cui viviamo. La linea guida di questo momento – #iorestoacasa – trascura infatti una realtà alquanto importante: le disuguaglianze tra classi e le difficoltà abitative di molte, moltissime persone, che non hanno dimora o vivono in ambienti insalubri.
Questa pandemia non farà altro che aumentare queste diseguaglianze[2]: da una parte, infatti, i cittadini e le cittadine ne usciranno ancora più poveri[3] mentre le compagnie multinazionali che commercializzano soprattutto nella produzione di cibo – e che si stanno arricchendo a danno della produzione locale e contadina – e di farmaci saranno le vincitrici.
Tutto ciò è dovuto a quello che noi chiamiamo “normalità”: una normalità in cui l’economia reale è sempre più distante dalla speculazione finanziaria; in cui l’accumulazione di capitale domina sulla protezione e il rispetto della Natura; dove la solitudine è diventata una vera e propria malattia sociale[4]. Una normalità in cui ci sono cibo e acqua per tutti gli esseri viventi, ma lo spreco e l’ingiusta distribuzione ne impediscono a molti l’accesso. Una normalità che presenta enormi problemi di inquinamento: basti pensare alle grandi isole di plastica che si muovono nell’Oceano (la più grande, nel nord pacifico è larga quanto il Perù), agli incendi che hanno colpito l’Amazzonia e l’Australia lo scorso anno oppure alla contaminazione dell’aria (8 milioni di persone muoiono per l’inquinamento aereo ogni anno).
Alberto Acosta. (Fonte: Google Immagini – https://images.app.goo.gl/93xM3XjbJKgp9yrp9)
Tuttavia, come ogni crisi, anche questa offre delle opportunità: opportunità creative, di riflessione, di cooperazione e cambiamento. Come possiamo cogliere il lato positivo e rigenerativo di tutto ciò? Sicuramente non svalutando e dimenticando la sofferenza, ma cercando di convertirla in energia per un possibile cambiamento radicale.
Acosta vede nel presente quattro opportunità:
1. L’opportunità di restaurare o instaurare il paradigma della cura. Come? Partendo dal prendere atto ed accettare la nostra comune vulnerabilità: questa epidemia ci mette a nudo. Guardiamo quindi a chi ora sta sostenendo la vita e il benessere collettivo: dottori, dottoresse, infermier*, impiegat* sanitar*, volontar*, contadin* e waste collector. Sono tutte persone coinvolte in attività di cura. Dobbiamo inoltre pensare alla salute, al cibo e all’housing come questioni legate ai diritti umani, non come beni commercializzabili, perché sono le basi per la vita.
2. Guardare alla Natura come un sistema vivente interdipendente, che ci accomuna tutti. Questa consapevolezza porta – tra le altre cose – a concepire e acquisire il concetto giuridico di diritti della Natura, già realtà in paesi come l’Ecuador e la Bolivia.
3. Liberarci dall’imperativo della crescita costante e permanente, dal paradigma dello sviluppo occidentale. Parliamo invece di decrescita e post-estrattivismo.
4. Progettare una redistribuzione dei profitti volta al benessere collettivo.
Sorge però spontaneo chiedersi come sia possibile realizzare tutto questo, da dove si possa partire. Secondo Acosta è necessario agire partendo da noi stess*; poi a livello familiare, comunitario, nazionale e internazionale, con democrazia, creatività e felicità.
Non c’è un modello unico globale, non un’unica soluzione.
Nel mondo infatti già esistono persone, gruppi e comunità che lavorano ad una vita alternativa. Il silenzio del mondo ora è un’opportunità per riflettere e creare soluzioni nuove, per creare interconnessioni e reti. Questo periodo è dunque un’occasione per pensare il mondo in modo diverso, per ripensarci.
La prospettiva non deve essere però antropocentrica, altrimenti nessun cambiamento sarà possibile: per superare questo sistema oppressivo e opprimente, dobbiamo guardare alla giustizia sociale come imprescindibile dalla giustizia ambientale, e al sistema come capitalista, patriarcale, coloniale, razzista e classista.
È innegabile inoltre che durante questa pandemia siano notevolmente aumentate le vendite online e l’operato soprattutto di grandi multinazionali e produzioni industriali.
Ci si domanda dunque se davvero la responsabilità del cambiamento deve cadere sui singoli individui, e non invece sulle grandi multinazionali e sulle istituzioni. La risposta è sicuramente complessa, ma è necessario un impegno individuale per evitare di tornare alla vecchia “normalità”, senza aver imparato nulla da quel che sta succedendo (sempre se sarà davvero possibile tornare a condurre la vita di prima).
Il cambiamento non è e non sarà automatico. Oltre ad impegno, creatività e dedizione sarà necessario fare un esercizio di memoria sia individuale che collettiva.
Chissà quindi che appena l’epidemia sarà finita, non scenderemo tutt* nelle strade non per consumare, ma a manifestare per un cambiamento, per un mondo dove tanti mondi possono finalmente coesistere in armonia.
[1]Come raccontato da Acosta, in Ecuador, ad esempio, il governo ha usato primariamente i soldi per ripagare il debito esterno e non per la sanità pubblica.
[2] Si ricorda che attualmente l’1% della popolazione mondiale concentra nelle sue mani la ricchezza del restante 50%.
[3] Osservando i dati, Acosta sottolinea che il 60% della popolazione attiva in Ecuador non ha un lavoro stabile e vive giorno per giorno: sono meccanici, artigian*, venditori e venditrici in strada, taxist*. Essendo costrette a rimanere in casa, queste persone perdono i loro guadagni giornalieri, diventando sempre più poveri.
[4] Si pensi che in Gran Bretagna dal 2018 esiste il Ministero della solitudine, ed il 35% della popolazione della Gran Bretagna ne soffre.
Alcuni spunti di lettura sull’argomento:
– “Il virus e la patria. Sulle rappresentazioni mediatiche dell’epidemia” di Giorgio Coen Cagli;
– “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” di David Quammen;
– “Fare pace con la terra” di Vandana Shiva;
– “Pluriverse: A Post-Development Dictionary”, di Ashish Kothari, Ariel Salleh, Arturo Escobar, Federico Demaria, Alberto Acosta.