A cura di Silvia Giordano
Questo articolo nasce da un forte senso di impotenza che provo osservando l’incremento esponenziale di “like”, di opinioni urlate e di tanti, troppi, proclami a intermittenza che circolano sui media – anche in queste settimane in cui il nostro Paese sta attraversando una delle esperienze di isolamento collettivo più surreali e delicate mai vissute a causa dell’epidemia da Covid19. Un taccuino prezioso rispolverato da un professore perseguitato durante il regime hitleriano riemerge dalle ceneri della Storia a ricordarmi come, senza mai abbassare la guardia, le parole e i simboli che abitano il linguaggio politico suggeriscono sempre un itinerario interpretativo possibile. Basta solo prestare attenzione alle tracce lasciate lungo il difficoltoso cammino di pensiero e di rielaborazione.
Victor Klemperer (1881-1960), professore ebreo di filologia presso l’Università di Dresda fino al 1935, anno in cui le leggi razziali lo costringono a lasciare la cattedra, rientra nel novero delle voci letterarie della Germania bombardata. Nel 1947 pubblica un diario-saggio, nel quale opera un’analisi della “lingua del Terzo Reich” (Lingua Tertii Imperii – LTI): per ragionare sulla nascita del nazismo fa ricorso alla linguistica e ai prodotti culturali, pervenendo a un’indagine della retorica populista. Uscito in Italia per la casa editrice Giuntina nel 1998, il “Taccuino di un filologo” costituisce un’opera di resistenza e di preziosa documentazione durante gli anni di privazioni, che portano Klemperer a lavorare in fabbrica con la stella gialla sul petto, fino alla salvezza resa possibile dal legame coniugale con una donna tedesca “ariana”. Come noto, il regime nazista in Germania sopprimeva qualunque tipo di espressione dissidente, e la missione morale di portare memoria di quegli anni interessa anche l’autore, desideroso di voler “lasciare testimonianza sino all’ultimo”[1] dell’efferata dittatura. Ma oltre all’intento morale, la costruzione di tale progetto si avvale di una minuziosa analisi filologica con un preciso scopo: trattare la correlazione fra la repressione di ogni libertà e la distruzione della lingua tedesca, minacciata dal “veleno” della LTI.
L’opera costituisce un documento di forte valore per la capacità di anticipazione dell’analisi del discorso politico, in particolare rispetto al concetto di “populismo”. Il filologo raccoglie e registra le tracce di “occupazione” hitleriana nello scenario culturale e linguistico, l’emersione del tabù ravvisabile in diversi passaggi descrittivi della propaganda di Goebbels, un accenno ai prodotti culturali individuati, ma anche la presenza di alcune formule ricorrenti.
Nonostante l’orrore attraversato e il trauma costante, Klemperer registra discorsi, appunta dialoghi che scandiscono i suoi spostamenti durante la fuga, come un documentarista, un reporter attento. In tal modo, ricuce un legame intimo e profondo con la lingua, oggetto del suo interesse, provando a riabilitarne una forma distinta dalla LTI, in cui individua “la lingua del fanatismo di massa”.[2] In effetti, è “per delle parole” che spesso si perde la libertà o la vita stessa, come il filologo esplicita nella postfazione riportando uno scambio con un’operaia berlinese che spiega così il motivo della sua passata incarcerazione. L’opera offre numerosi spunti di riflessione sulla lingua come potente chiave di lettura del rapporto fra potere e masse.
Tra i principali temi affrontati dall’autore, compare frequentemente la correlazione fra fede e rappresentazione del regime. L’atteggiamento fideistico rilevato da Klemperer passa attraverso espressioni quali “credo in lui”[3], pronunciata dalla vecchia conoscenza Paola von B., di cui vengono riportati alcuni scambi avvenuti nel 1933 nei quali la donna, a scapito di qualsiasi principio logico, difende incondizionatamente l’operato del Führer pretendendo di preservare il rapporto di amicizia con lo studioso ebreo. Il “legame” insito nell’etimologia della religione si ripresenta in bocca a rappresentanti di gruppi sociali diversi, a riconferma, secondo l’autore, del suo carattere tanto intimo, quanto diffuso. Alla domanda sul destino di un post-Terzo Reich, per l’ammissione della Hitlerjugend alla scuola “Adolf Hitler”, l’unica risposta possibile è “Niente, perché il Terzo Reich è il Reich eterno dei tedeschi”[4], così come sono “uniche”, “storiche”, “eterne” le ricadute delle celebrazioni ascritte dal filologo al linguaggio neotestamentario. Tra i numerosi altri esempi rilevati, è singolare quello della patria innominata, “perché rappresentata e inglobata nello stesso Hitler, come il corpo di Cristo nell’ostia consacrata.”[5] L’ostentazione di simboli religiosi in chiave strumentale riporta ad alcuni episodi contemporanei di dubbio gusto, come all’intervento in Senato da parte del leader della Lega di Matteo Salvini l’estate scorsa.[6]
Dall’ausilio del linguaggio religioso, Klemperer fa discendere la matrice fanatica del regime, che ad apertura del taccuino è associata all’aggettivo “eroico” tanto caro a Goebbels e Hitler, e per questo considerata un elemento “tossico”. All’attributo“fanatico” è dedicato un intero capitolo, che dall’etimologia greca agli impieghi nell’Illuminismo francese, esamina il suo uso nella lingua tedesca che si carica di un senso migliorativo nel registro nazista.[7] Tuttavia, la “fanatica fede” si registra anche nel carattere oppositivo di resistenza di una certa cultura ebraica che si vuole distinta dalla barbarie dell’arianesimo oltranzista, ma rivendica un riconoscimento nella comunità tedesca:
Elsa raccontava spesso come badasse a che i suoi figli crescessero nella giusta fede ebraica ma che nonostante ogni umiliazione presente assorbissero da lei la fede nella Germania (ne parlava come della “eterna Germania”). “Devono imparare a pensare come me, devono leggere Goethe quanto la Bibbia, devono essere dei tedeschi fanatici!”[8]
Sulle osservazioni di Elsa, segue un giudizio molto duro da parte del filologo, che rimprovera una certa dose di leggerezza nell’impiego dell’attributo tanto diffuso nella LTI. Di contro, con velata autoironia Klemperer riporta come sia la stessa donna a rimbalzargli l’accusa di “fanatico” nell’eccessiva pedanteria del proprio occhio critico.
Il grande tradimento operato dalla LTI si estende alla percezione delle quantità, “l’uno e il tutto” combaciano in un orizzonte uniformante che raccoglie ogni cosa:
Anche “totale” è un valore numerico massimo; nella sua realistica calcolabilità è altrettanto significativo quanto “innumerevole” e “inimmaginabile” nella loro eccessività romantica. Tutti hanno ben presenti le orribili conseguenze per la Germania della guerra annunciata programmaticamente come “totale”. Ma a parte la guerra, dovunque nella LTI ci si imbatte nel “totale”: un articolo del Reich lodava la “situazione educativa totale” di una scuola femminile di rigida osservanza nazista; in una vetrina vidi un gioco da scacchiera definito “il gioco totale”. Tout se tient. Se i superlativi numerici sono inseparabili dal principio totalitario, d’altra parte invadono anche l’ambito del religioso e un’aspirazione fondamentale del nazismo è essere una fede, una religione germanica sostitutiva del cristianesimo, semitico e antieroico.[9]
Il disegno politico proietta nel linguaggio l’ancestrale appartenenza al minimum ideologico che rinvia indistintamente qualsiasi componente della vita sociale a un senso di totalità ontologica, coerentemente con il principio fideistico sopra riportato e la conseguente carica positiva del fanatismo. In quest’ottica, altre espressioni prima distintamente connotate nella loro valenza semantica, confluiscono nell’orizzonte dell’uniformità, dove “tutto vale tutto”:
Si può ottenere l’effetto superlativo del numero anche al contrario: unico è altrettanto superlativo quanto mille. Unico [einmalig, di una volta sola], come sinonimo di straordinario, svuotato dell’originario significato numerico, all’inizio della prima guerra mondiale era ancora un termine impiegato in senso estetizzante dalla filosofia e dalla poesia neoromantiche, da persone che attribuivano grande importanza all’esclusiva eleganza e novità del loro stile, quali Stefan Zweig o Rathenau.[10]
Nelle macroscopiche distanze dagli attuali regimi occidentali che, seppure nel mezzo di una conclamata crisi degli assetti liberali, mantengono una garanzia di democrazia, Klemperer squarcia la tela della rappresentanza politica: siamo davvero immuni, oggi, a un ritorno del “veleno” del discorso politico? Lynda Dematteo, antropologa e politologa francese, riporta un interrogativo cruciale per le attuali letture del discorso politico veicolato attraverso il pervasivo strumento della rete: “come si opera il passaggio dal palco alla rete? Cosa cambia nella comunicazione verbale? La scrittura web è ambigua, la rete sembra silenziosa, ma mobilita più di un discorso di piazza.”[11].
Con più domande che risposte, rimangono incerti e sempre più sfumati i contorni del tema politico sul momento storico che stiamo vivendo. Si fa strada però una rassicurazione: dalle parole che scavalcano qualsivoglia tentativo di oblio nel mare magnum del web, forse tenersi un taccuino nel cassetto, senza troppe mire filologiche, potrebbe rivelarsi utile fra qualche anno, quando molte tracce saranno ormai perse nell’etere.
[1] Ranchetti M., prefazione in Klemperer, V., LTI, La lingua del Terzo Reich, Taccuino di un filologo, Firenze, Giuntina, 2011, p.7.
[2] Klemperer, V., LTI, La lingua del Terzo Reich, Taccuino di un filologo, Firenze, Giuntina, 2011, p.40.
[3] Ivi, p. 132.
[4] Ivi, p. 140.
[5] Ivi, p. 153.
[6] Discorso di Matteo Salvini in Senato, 20/08/2019, https://www.la7.it/speciali-mentana/video/il-discorso-integrale-di-matteo-salvini-in-senato-governo-finito-per-colpa-di-tanti-signor-no-20-08-2019-279452.
[7] Klemperer, V., op.cit., pp. 79-84.
[8] Ivi, p. 230.
[9] Ivi, p. 262.
[10] Ivi, p.263.
[11] Dematteo, Lynda, “Voci populiste: tuonare dal palco, ammiccare dalla rete” in Parolechiave, Vol. 60, no.2, luglio-dicembre 2018, pp. 17-34.