A cura di Stefano Remuzzi
Dopo la seconda guerra mondiale tutto è cambiato. Prosperano le attività industriali. Pochi restano in campagna, i più sono attratti dal lavoro in fabbrica e dalla città dove brulicano i negozi, i cinematografi, i teatri, le luci serali. La fabbrica, nell’immaginario collettivo, avrebbe riservato per sempre un posto sicuro, pagato regolarmente e forse avrebbe anche garantito la possibilità di subentro dei figli al momento della pensione per il padre.
Il “boom economico” impone un nuovo modo di vivere. Nessuno strumento ebbe un ruolo così rilevante nel mutamento molecolare della società quanto la televisione, che entrò nelle case degli Italiani nel 1954 dopo circa vent’anni di sperimentazioni. Progressivamente essa impose un uso passivo del tempo libero a scapito delle relazioni di carattere collettivo e socializzante e, alla lunga, avrebbe modificato profondamente i ruoli personali e gli stili di vita, oltre che i modelli di comportamento. È proprio la vita sul nostro pianeta che il miracolo economico ha minacciato.
Il desiderio di un’elevata produzione, di elevati consumi, di produttività in ogni senso, hanno sovrastato il pensiero di una vita sostenibile, curandosi solo di un benessere apparente e poco lungimirante, probabilmente dato dall’incapacità della nostra classe politica di gestire le problematiche legate al boom economico. Sicuramente la velocità nel cambiamento della vita dei cittadini ha favorito l’incapacità della gestione di questo fenomeno. Con questo non voglio assolutamente affermare la mia contrarietà ad uno sviluppo economico che è stato necessario e utile per il paese. Credo solo che come ogni cosa, anche il miracolo economico si sarebbe dovuto valutare sotto tutti i suoi aspetti.
A conferma della mia tesi metto in luce alcuni casi che dimostrano quanto, in termini ambientali e di impatto sull’uomo il miracolo economico sia costato caro ai cittadini italiani. Mi riferisco in maniera particolare ai danni ambientali che tale sviluppo ha trascinato con sè.
I danni ambientali legati alla speculazione edilizia degli anni successivi alla seconda guerra mondiale e al dissesto idrogeologico causato dalla smodata costruzione di edifici e all’incapacità del nostro Paese di far seguire ad uno sviluppo economico un adeguato sviluppo sociale e culturale. In ordine mi saltano alla mente l’alluvione di Firenze del 1966, la frana di Agrigento dello stesso anno e le più recenti alluvioni e disastri ambientali in giro per il Paese.
Frana di Agrigento nel 1966
I danni dello sviluppo economico non sono solo legati alla natura e alla poca attenzione rivolta ad essa ma anche alla poca attenzione della salute dell’uomo e all’attentato alla sua vita.
Due casi molto significativi: l’Icmesa di Seveso, avvenuto nel 1974 e quello di Bhopal in India, accaduto esattamente dieci anni dopo, nel 1984. Analizzando approfonditamente il caso di Seveso per motivi di studio passato, mi è stato permesso di capire veramente cosa volesse dire affrontare un tale danno ambientale e umano, anche grazie alla lettura di una raccolta di interviste fatte all’epoca da una donna a donne di Seveso e Meda colpite direttamente e indirettamente dalla nube tossica fuoriuscita dalla fabbrica. I casi di Seveso e Bhopal ci portano a conoscenza degli ingenti danni ambientali prodotti dal nostro sistema economico, poco attento all’ambiente in cui è inserito e alle persone che lavorano al suo interno al fine di dare ricchezza a sistemi colossali come la Union Carbide Corporation, transazionale americana capogruppo dell’industria figlia a Bhopal.
Legato a questo tema è essenziale dare attenzione alla tematica della responsabilità d’impresa che diventa facilmente, con un semplice gioco di parole, ir-responsabilità d’impresa. La triste capacità dei colossi occidentali di restare indifferenti e insensibili alle conseguenza della delocalizzazione dei sistemi produttivi ha particolarmente colpito e rafforzato il mio pensiero riguardo questa tematica.
A risposta di quanto detto finora negli ultimi anni ci vengono lanciate alcune provocazioni di nuove economie che stanno prendendo sempre più piede nel nostro sistema economico tradizionale. Due particolarmente interessanti sono, la più famosa Green Economy e la meno conosciuta Pop Economy.
Partendo dalla prima, sappiamo già quanto fatto in tema di protezione ambientale dalla comunità europea (Agenda 2030). La Pop Economy si basa invece sul comportamento del singolo per tutelarsi e aiutare la formazione di uno sviluppo economico sostenibile. Questo nuovo tipo di economia prende appunto il nome di Pop Economy o economia partecipativa.
Tali modelli economici sono sicuramente discutibili e non vogliono essere una soluzione ai problemi economici attuali, ma intendono essere uno stimolo ad estendere il pensiero altrove cercando nel nuovo la sfida per vincere.