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Appunti di Cooperazione Internazionale

Nazieuropa: intervista a Beppe Casales

A cura di Laura Cicirata

Qualche mese fa, seguendo il consiglio di un amico, ho assistito allo spettacolo teatrale “Nazieuropa” di Beppe Casales.

Nazieuropa si apre con un uomo, un padre, che scrive una lettera alla futura figlia che sta per nascere e lo fa con l’intenzione di prepararla al mondo in cui arriverà e si ritroverà a vivere, un mondo di cui il padre si vergogna e prova a spiegarle il motivo di tanta preoccupazione e di tanto dolore.
E’ una lettera appassionata, libera che sconvolge e disarma, ma al tempo stesso fa nascere domande, paure, sgomento, speri in un finale dolce e lieto ma ti rendi conto che non è una favola, non si può riscrivere il presente e tanto meno il passato.
Per poco più di un’ora il pubblico si è ritrovato in un mare tempestoso di emozioni che si alternavano tra la rabbia, lo sdegno e la vergogna: vergogna dettata dalla consapevolezza che, seppur in misura minore, ognuno di noi ha una responsabilità in questo processo di imbarbarimento della società che si accanisce contro l’ultimo arrivato, contro chi si trova con meno strumenti e anziché essere aiutato e rinforzato viene allontanato, accusato di essere l’origine di un problema che nessuno conosce ma che dall’alto ci viene indicato come risolvibile solo se lui, l’ultimo, lo straniero, sparisce e ci permette di tornare a nasconderci nella nostra confort zone, senza doverci misurare con la disumanità e l’egoismo di cui tutti siamo portatori.
Senza quasi rendersene conto, per tutta la durata del monologo, le espressioni del viso si alternano tra abbozzi di sorrisi e labbra serrate, denti stretti e menti tremolanti e alla fine, inevitabilmente, si sente una morsa forte, all’altezza dello stomaco e applaudi.
Applaudi chi ha saputo leggerti dentro e ti ha ricordato che dal germe della violenza, del razzismo e dell’indifferenza nessuno è escluso.
Perciò la necessità di restare vigili, analizzare le situazioni, approfondire la conoscenza di ciò che ci circonda, mettersi in ascolto da una posizione che non faccia ombra all’interlocutore ma che permetta di aprire uno spazio di “dialogo altro” rispetto alle tante verità sbandierate di chi non vuole o non sa misurarsi con i propri limiti, è vitale.
Per queste ragioni, oltre che per una profonda ammirazione per il lavoro svolto da Beppe Casales, ho deciso di chiedergli una breve intervista.

Beppe Casales durante il suo spettacolo (Ph. Raffaela Vismara)

Come è nata l’idea di mettere in scena questo spettacolo?

Mi occupo di questi temi da molti anni.
Ho un’idea politica molto vicina all’anarchismo, il concetto di frontiera e tutto ciò che esso comporta non lo sento mio, lo trovo lontano e dannoso, ho fatto esperienze che mi hanno portato ad occuparmi di questo fenomeno.
In passato ho dato vita e portato in scena lo spettacolo Welcome che aveva come protagonista una famiglia siriana e trattava il tema delle grandi migrazioni, in modo particolare quello di parte del popolo siriano, considerato il più grande esodo del secondo dopo guerra a oggi.
Successivamente avevo iniziato a lavorare su uno spettacolo legato al tema della scuola ma mi sono interrotto per dedicarmi a Nazieuropa.
Ho deciso di rimandare il lavoro sulla scuola, un tema a me molto caro, perché non riuscivo ad accettare la violenza di tutto ciò che sta succedendo nella nostra società, avevo troppa vergogna, e a mio avviso si è superato il limite di sopportazione.
Lo spettacolo si concentra sulla rabbia verso le politiche nazionali ed europee che hanno portato a questa situazione. Ho deciso di partire da un pretesto creando un paragone tra gli anni ’30, il razzismo e la persecuzione nei confronti degli ebrei e l’ossessione di questa nostra società che si accanisce contro lo straniero. L’obiettivo di tale paragone che, me ne rendo conto, è molto forte, è dimostrare e ricordare che nessuno è immune al fascismo.

Il fascismo si alimenta di tutta quella parte di difficoltà sentimentali e sociali che, se non siamo in grado di affrontare e risolvere, tende ad estendersi e a farci leggere la realtà come una continua minaccia, cercando sempre un capro espiatorio che metta pace ai nostri tormenti, senza mai riuscirci.

C’è una figura, un personaggio, a cui ti sei ispirato nella stesura di questo spettacolo?

No, nessuno. Ho utilizzato il mio modo di fare teatro. Certamente ho delle preferenze nel mondo dello spettacolo, mi viene in mente Marco Paolini, per esempio, un attore molto bravo che mi è sempre piaciuto, il suo impegno nel teatro civile è stato molto significativo per me, ma non credo di averlo usato come modello da seguire.
Il mio obiettivo era quello di riuscire a scatenare infiniti mondi nel cervello, andando a toccare corde più o meno scoperte; in Nazieuropa ho inserito molti video puntando su un impatto visivo e sonoro forti. E’ una scelta stilistica che faccio e che fa parte del mio percorso di attore.

Quali rimandi hai avuto dal pubblico che nelle numerose date di Nazieuropa ha assistito al tuo spettacolo?

Era la prima volta che usavo quella modalità di linguaggio particolare, senza un protagonista. E’ stato un azzardo. Inizialmente ero un po’ spaventato, ma i riscontri sono stati molto positivi, Nazieuropa fa quello per cui l’avevo pensato: parte da una base storica ma riesce a toccare l’emotività di chi ho di fronte. Ed è questo che conta secondo me, perché il teatro va in questa direzione, anche se può essere faticoso deve creare empatia, la gente ti crede se sei sincero, se usi parole e concetti sentiti, se le storie che racconti esistono e possono essere comprese.
Credo che sia anche una questione di credibilità, personalmente mi sono esposto molto con questo spettacolo, ma l’ho sempre fatto, le mie idee sono sempre stata visibili e credo che questo venga apprezzato da chi mi segue.
Escludendo il mondo dei social che lascia il tempo che trova, a mio avviso, non ho avuto modo di parlare con qualcuno che non la pensasse come me rispetto al tema centrale dello spettacolo, ma suppongo che questo sia piuttosto naturale: se non credi che ciò che è stato si possa ripetere, difficilmente andrai ad assistere ad uno spettacolo teatrale in cui si dice l’esatto opposto, perciò, diciamo, c’è stata una sorta di selezione alla base. Ma mi farebbe piacere confrontarmi con qualcuno che abbia assistito dal pubblico e abbia degli appunti da farmi, lo trovo molto utile e costruttivo.

Beppe Casales durante il suo spettacolo (Ph. Raffaela Vismara)

Cosa rispondi a chi sostiene che il paragone tra la Germania degli anni ’30 e la nostra società oggi sia eccessivo?

Rispondo che è vero, non siamo negli anni ’30 del Novecento ma ciò che ha provocato la persecuzione prima e lo sterminio nei campi di concentramento poi è esistito ed è in noi,
Ho voluto mettere in evidenza la vergogna che provo nell’abitare in un Paese che discrimina il diverso e cerca in tutti i modi di criminalizzarlo, convinto di tutelarsi e rinforzare la propria identità; e dato che non ritengo sia giusto, vorrei che anche la signora X debba sentirsi coinvolta.
Non si può pensare che si possa sempre delegare, la responsabilità non è delegabile, non si può stare zitti. Non scegliere è una scelta. Se succede qualcosa di brutto, non dire qualcosa significa essere complici.
C’è un aneddoto che vorrei raccontare: ho un amico olandese, un romanziere. Quando ho portato questo spettacolo a Genova, una città a cui sono molto legato, il mio amico è venuto ad assistervi e al termine dello spettacolo mi ha detto: ”Da noi non esiste questo genere di teatro civile, queste cose che tu racconti, le trattano i giornalisti, è il loro lavoro”. Ho riflettuto molto su queste parole e la risposta che mi è venuta è stata: “Io non sono un giornalista, ma la gente ha bisogno di ascoltare queste storie e se nessuno lo fa, è bene che ci pensi il teatro”.

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