A cura di Alessandra Cominetti.
La chiamano the smiling coast, ma gli abitanti del più piccolo Paese africano, il Gambia, non hanno molti motivi per sorridere.
Il Paese è vittima di uno sfruttamento sfrenato da parte delle potenze straniere che stanno mettendo in atto politiche neocolonialiste, salvo poi rifiutare ed emarginare gli emigranti forzati che cercano fortuna in Europa o in altri Paesi.
Una delle maggiori risorse del Gambia è l’attività ittica: l’oceano regala al Paese moltissimo pesce, tanto che buona parte della popolazione vive grazie alla pesca e utilizza il pesce, insieme al riso, come principale fonte di nutrimento.
I gambiani praticano la pesca con metodi tradizionali, spostandosi su piccole imbarcazioni chiamate kuluingo, e pescando lo stretto necessario per il sostentamento e il commercio locale: una pesca sostenibile, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista ambientale.
Di ritorno dalla pesca, Gambia
Purtroppo, come spesso accade con le risorse dei Paesi africani, diverse potenze straniere hanno adocchiato le risorse ittiche del Gambia e hanno pensato di intervenire ottenendo licenze a basso prezzo che consentono l’iper-sfruttamento delle risorse, inquinando l’ambiente e impoverendo l’ecosistema.
Parliamo di “Ocean grabbing”.
Prima di apporfondire l’argomento, è interessante osservare da vicino se e come la popolazione locale percepisce questo fenomeno.
Nel caso del Gambia, i cittadini osservano ogni giorno, impotenti, i danni che le grandi compagnie, soprattutto cinesi, ma anche europee, stanno arrecando alla loro, già fragilissima, economia: i pescatori riportano un incredibile impoverimento delle acque negli ultimi anni e sono obbligati a spingersi sempre più al largo per continuare a sopravvivere.
Pare che le grandi compagnie straniere, oltre ad ottenere licenze a basso prezzo, sfruttando l’altissima corruttibilità dei politici locali, non rispettino nemmeno i pochi accordi firmati e peschino più di quanto sarebbe loro concesso, senza fare le dovute distinzioni fra le specie marine pescabili e quelle a rischio estinzione.
Ancora più grave, la pesca indiscriminata e la necessità di utilizzare solo alcune parti del pesce, ad esempio per la produzione del famoso olio ricco di omega 3, porta al paradosso di osservare panorami fatti di intere spiagge, o strade, piene di pesce marcescente abbandonato perché non interessante o privato delle parti utili alla produzione.
L’abbandono del pesce, oltre a costituire uno spreco enorme, soprattutto di fronte a una popolazione con un PIL pro capite di 709 dollari, ha alcune conseguenze secondarie non da poco.
Innanzitutto ha un impatto sulla salute pubblica, le strade vengono contaminate dall’odore insopportabile, si attirano animali portatori di malattie e virus e batteri prolificano, creando un pericolo reale per la popolazione; tutto questo alla luce del fatto che non esiste un efficiente sistema di rimozione dei rifiuti e che comunque, una situazione del genere, creerebbe un’emergenza in qualsiasi altro luogo.
Pesce abbandonato a Sanyang, in Gambia
Secondariamente, questo fenomeno influisce anche sul turismo, altra fonte di sostentamento importante per i gambiani, soprattutto dopo la fine della lunga dittatura di Yaya Jammeh: strade maleodoranti e sporche allontanano i turisti, che potrebbero invece aiutare la popolazione a sopperire al danno economico di cui è vittima.
Insomma, un Paese che dopo più di vent’anni di feroce dittatura, sta cercando di rialzarsi e riprendersi ciò che gli appartiene, si ritrova di nuovo in ginocchio, con la maledizione che perseguita tanti Paesi africani: il neocolonialismo, economico o politico che sia.
Il fenomeno dell’Ocean grabbing non è però recente o tipico solo del Gambia, probabilmente, come molto spesso accade, se ne parla semplicemente molto poco.
Se ne parla poco perchè gli interessi economici che girano attorno a questo fenomeno sono altissimi e, come spesso succede, i paesi più ricchi ne traggono enormi benefici, a scapito però dell’economia locale e della tutela dell’ambiente, che, ancora una volta viene posta in secondo piano.
Nel 2017 Greenpeace ha realizzato un report al riguardo, navigando vicino alle coste dell’Africa Occidentale: in evidenza il coordinamento inesistente fra gli attori politici, la poca trasparenza degli accordi fra Stati e compagnie private, la quasi totale assenza di sorveglianza. Le navi che pescano in quella parte di mondo sono per lo più cinesi, italiane, coreane e, ovviamente, locali, e difficilmente rispettano i limiti quantitativi di pesce stabiliti per legge e tanto meno utilizzano metodi di pesca rispettosi dell’ecosistema marino.
Secondo Frontiers in Marine Science la pesca illegale causa danni per 23 miliardi di dollari all’anno e (sorpresa!) colpisce soprattutto i Paesi dell’Africa occidentale, per i quali costituisce il 20% delle perdite economiche totali.
Esemplare il caso della Guinea Bissau in cui il valore stimato della pesca è pari a circa 430 milioni di dollari, di cui però 240 milioni circa, più della metà, si volatilizzano grazie alla pesca illegale operata da navi straniere.
A rendere tutto più complicato, oltre all’assenza di controlli, è il fatto che la pesca, per definizione, si svolge in un ambiente comunque difficile da controllare e i passaggi di pesce da una nave ad un’altra rendono praticamente impossibile verificare l’ammontare reale e la qualità del pescato.
Situazione disastrosa? Come al solito, si.
Situazione senza speranza? Come al solito, no.
Il fatto che le popolazioni locali siano consapevoli di quello che sta accadendo, il fatto che cerchino di denunciare le violenze di cui sono vittime mi suggerisce, opinione personale, che non potremo andare avanti per sempre a spingere in basso una parte di mondo per consentire a noi stessi un’ascesa senza limiti.
Screenshot dalla pagina facebook LiberateyourselfGambia
https://www.frontiersin.org/journals/marine-science#
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