A cura di Stefano Fogliata
“Il ciclismo non è un gioco. È uno sport duro, terribile, spietato, che esige dei grossi sacrifici. Si gioca a calcio, a tennis, a hockey, ma non si gioca a ciclismo…”
Forse è anche difficile pensare al ciclismo come solo ad uno sport: la bicicletta è un modo di vivere, che dai suoi albori ha spostato milioni di persone in giro per il mondo. Per buona parte del Novecento, la bicicletta è stata il “mezzo privilegiato” di milioni di operai, contadini e mondine attraverso tutta l’Italia. A partire dal 1909, con la prima edizione del Giro d’Italia vinto da Luigi Ganna, attraversare lo stivale su due pedali, più che un bisogno, diviene una vocazione: dal giro dell’Italia al Giro d’Italia.
Diventare ciclisti, in questo senso, diveniva una sorta di deformazione professionale: gran parte dei pionieri del ciclismo inteso come “sport moderno” sono arrivati alla gloria da “ciclisti per caso”. Una bici, uno sponsor e soprattutto grandi gambe: questi gli ingredienti principali dei vari Binda, Guerra e Girardengo. E il cuore dove lo mettiamo? Erano i tempi del ciclismo eroico, di un’Italia che durante il fascismo aveva bisogno di eroi nazionali e che nel Dopoguerra aveva bisogno degli stessi eroi per riscattarsi. E con la nascita della Repubblica nel 1946 l’ unico referendum lasciato irrisolto restava: Coppi o Bartali?
I grandi campioni vengono ricordati per le loro imprese sportive, eppure la stella del ciclismo Gino Bartali brilla anche per altruismo e umanità. Lui, che durante le persecuzioni degli ebrei in Italia trasportò all’interno della sua bicicletta documenti falsi per aiutarli ad avere una nuova identità e a sfuggire alla deportazione che li avrebbe portati nei campi di concentramento nazifascisti. La notizia si diffuse solo in seguito alla sua morte nel 2000 e raggiunse l’opinione pubblica solo negli ultimi anni, fino alla medaglia d’oro al valor civile conferita dall’allora Presidente Ciampi nel 2006 e al suo inserimento come “Giusto tra le Nazioni” nel 2013.
(Piccolo spazio pubblicità) Giusto tra le Nazioni per aver salvato e protetto degli “illegali” che non avevano diritto a stare in Italia, a costo di andare contro la stessa legge vigente. Ci dice nulla questo episodio rispetto ai mala tempora che corrono oggi -solo 6 anni dopo- per chi salva la vita a degli illegali, a costo di andare contro le normative attuali?
Restando su due ruote, il Giro d’Italia ci attraversa non solo la strada sotto casa: la Corsa Rosa ha attraversato la nostra storia sin dagli albori e ci parla di noi a mo’ di cartina di tornasole. Eravamo rimasti quindi all’epoca dei pionieri, degli eroi nel Dopoguerra raccontati in radio e arriviamo all’epoca “contemporanea”. Quella in cui l’operaio sostituisce la bicicletta con la macchina, ed il Giro d’Italia arriva nelle case degli italiani non più solo attraverso la radio.
Era la fine degli anni Sessanta, gli anni della Contestazione e di un grande fermento culturale ben rappresentato dai tanti e controversi intellettuali di quel tempo. E poteva per caso il Giro sottrarsi a questo vento? Il Processo alla Tappa diviene quindi uno dei più brillanti palcoscenici culturali di quel tempo, con il ciclismo che – come dai suoi albori – si presta per natura a divenire fonte d’ispirazione per gli intellettuali del tempo. Quella era un`epoca in cui per commentare il Giro d`Italia venivano invitati in televisione intellettuali come Pasolini e Giuseppe Berto, Alberto Bevilacqua e Indro Montanelli.
Ve lo immaginate un Pasolini oggi a commentare il Giro d’Italia? Più che di rinascita culturale, anche i successivi decenni della Corsa Rosa hanno seguito le dinamiche dello show-business, suggellata dall’ultima infausta Grande Partenza da Tel Aviv lo scorso anno. Mala tempora currunt anche per il ciclismo?
A dire il vero, mai come in questi ultimi anni nelle nostre città si è ritornato a pedalare: il mercato delle biciclette – e dei suoi annessi vezzi tecnologici ed app dedicate – è schizzato alle stelle. Non solo bicicletta come sport, ma come esigenza quotidiana sulla scia delle mondine e degli operai di 100 anni fa: non più dettato non da un’esigenza prettamente “economica”, ma da un’altrettanta esigenza e consapevolezza “ambientale”.
Ma se la consapevolezza delle due si sta sempre più diffondendo tra chi pedala, non altrettanto sta succedendo su chi la stessa strada la percorre su 4 ruote. Schizza il mercato delle biciclette ma pure i morti su quelle bici. Dopo una decrescita fino al 2016, le morti sulle strade italiane hanno ricominciato ad aumentare. Nel 2017 sono morti 254 ciclisti su un totale di 3.378 decessi. Ogni giorno muoiono 10 persone in Italia sulla strada e ogni 34 ore muore un ciclista. Che sia anche questo il segno dei tempi? Oggi sembra che Il più debole- che sia sulla strada, in mare o nascosto per timore di rastrellamenti- non meriti alcuna considerazione e rispetto.
È proprio in risposta a quest’atmosfera e a questi numeri agghiaccianti che la Fondazione Michele Scarponi – nata dopo la morte in bici del campione marchigiano- insieme all’Associazione dei Corridori e molte altre realtà si stanno impegnando per promuovere il rispetto dei pedoni e dei ciclisti sulla strada. Ed è proprio dalle strade del Giro d’Italia – vinto proprio da Michele nel 2011 – che il messaggio riparte per propagarsi al mondo fuori dalla Corsa Rosa. L’hashtag lanciato dalla Fondazione Michele Scarponi è “La Strada è di tutti, a partire dal più fragile”.
A partire dal più fragile: in strada, in mare, nelle periferie.
Non tramonterà mai la fiaba della bicicletta e del Giro d’Italia, semplicemente perché il Giro d’Italia siamo noi.
Non tramonterà mai la fiaba della bicicletta. Si conclude con questo titolo il Giro d’Italia del 1949 per Dino Buzzati, con una bellissima ode al ciclismo, un inno alla Grande Corsa in rosa, alle imprese dei campioni, al sacrificio e alle brevi glorie dei gregari, che il giornalista-scrittore ha raccontato alla fine della Corsa Rosa di 70 anni fa.
“Che cosa restava adesso di questo lavoro spaventoso? Non aveva prodotto niente? Niente. Fatica dunque, sacrificata a una mania priva di senso? Eppure, via via che questi uomini procedevano di città in città, lasciavano gli affari e le vanghe, balzavano dal letto, scendevano dai sommi casolari, facevano a piedi lunghissimi tragitti, aspettavano sotto la pioggia e sole per mattine intere, ed eccole là, le genti di tutta Italia, contadini, operai, lupi di mare, mamme, maestre con scolaresche intere, vecchi cadenti, paralitici, preti, mendicanti, ladri, schierati lungo quattromila chilometri, e non erano più gli stessi del giorno prima, un sentimento nuovo e potente li possedeva, ridevano, gridavano, per qualche istante dimenticavano le pene della vita, erano felici, positivamente, e ne possiamo fare qui regolare testimonianza. Serve dunque una faccenda stramba e assurda come il Giro d’Italia in bicicletta? Certo che serve. E’ una delle ultime città della fantasia, un caposaldo del romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso, e che rifiuta di arrendersi.”