A cura di Stefano Remuzzi
Per il numero delle vittime l’incidente di Bhopal è ricordato come il più grave disastro causato dall’uomo in tempo di pace. L’incidente rimane un esempio di come le società transnazionali (dette anche multinazionali) possano aggirare le norme relative alla protezione della salute umana e dell’ambiente, collocando le loro attività più pericolose in un paese dove la regolamentazione è particolarmente carente o dove le regole, ancora inesistenti, non siano in pratica osservate o fatte osservare. La notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 circa 40 tonnellate di un gas letale fuoriuscirono da un impianto chimico per la produzione di insetticidi gestito dalla società Union Carbide India Limited (UCIL) appartenente al gruppo transnazionale americano Union Carbide Corporation (UCC). Una quota, sia pure di minoranza, delle azioni della UCIL era di proprietà del governo ed enti pubblici indiani che erano stati piuttosto permissivi sulle costruzioni abusive nei pressi dell’impianto e per quanto concerne l’assenza di qualsiasi piano di emergenza. Morirono circa 4000 persone entro poco tempo dal disastro e molte di più negli anni successivi (il numero esatto non è mai stato determinato) e circa 25000 persone riportarono lesioni fisiche di varia gravità.
Bambini morti a causa delle emissioni di gas chimici
Il gran numero delle vittime fu dovuto oltre che alla presenza di insediamenti abusivi in prossimità dell’impianto, anche alla mancanza di piani per far fronte ad una simile emergenze e all’assenza di qualsiasi informazione preventivamente data alla popolazione che poteva essere colpita. Entrando nella specificità del caso di Bhopal sappiamo che la UCIL era una società di nazionalità indiana creata in India nel 1934. Il 50,9% delle azioni di UCIL era posseduto da UCC, una società americana costituita nello stato di New York, a sua volta società madre di un gruppo societario transnazionale, composto da più società sparse in diversi stati che adottavano pur sempre la stessa strategia industriale ed economica. Ogni società collegata è dotata di personalità giuridica propria, legata alla capogruppo tramite una quota maggioritaria di capitale azionario. A causa di questa diversità della personalità giuridica ci si pone in questi casi il problema se una vittima di un incidente causato da una società controllata da un’altra debba essere risarcita dalla società capogruppo e non soltanto dalla diretta responsabile del danno, il cui patrimonio potrebbe rivelarsi insufficiente per il completo risarcimento. Stiamo parlando del così detto “velo delle società transnazionali” che fa sì che chi può decidere delle altrui azioni non sia chiamato a rispondere dei danni che ne derivano. Tralasciando tutte le annose questioni giudiziarie legate al caso e allo svolgimento del processo, il governo indiano ritenne che fosse socialmente utile che le società transnazionali americane si assumessero la responsabilità di incidenti avvenuti all’estero. Il fatto di trattare le vittime di Bhopal nello stesso modo in cui si sarebbero trattati i cittadini americani lesi da incidente avrebbe però creato un precedente applicabile a tutte le società transnazionali americane. La corte preferì però dare un peso maggiore all’interesse dell’India ad assicurare che i propri criteri di sicurezza fossero osservati. Il giudice americano pretese di conoscere gli interessi dell’India più di quanto li conoscesse il governo stesso! Il 3 dicembre del 1986 il governo indiano presentò la domanda di risarcimento di danni valutabili in 3.300.000.000 di dollari contro UCC. Il 14 febbraio 1989 la Suprema Corte dell’India adottò un’ordinanza che ingiungeva a UCC di versare all’India la cifra di 470.000.000 di dollari. La transazione era soprattutto determinata dall’urgenza di fornire riparazione e assistenza alle vittime.
Resti dell’impianto chimico di Bhopal di proprietà della Union Carbide Corporation
La conclusione del caso di Bhopal dimostra che il cosiddetto “velo delle transnazionali” è tuttora un’arma temibile nelle mani dei responsabili di incidenti industriali. Con la transizione la società madre ha accettato di farsi carico dei danni provocati dalla società figlia. E’ però vero che il tempo richiesto per il completo svolgimento di un processo di enormi dimensioni e la prevedibile strategia dilatoria che UCC avrebbe attuato, hanno costretto l’India ad accettare un risarcimento molto inferiore a quello che una sentenza avrebbe potuto accordare. Il 7 giugno 2010 si concluse il processo in primo grado con la condanna di sette dirigenti della UCIL. Gli eventi di Bhopal hanno costretto l’India ad adottare norme legislative più idonee a contrastare gli incidenti industriali.
Il disastro di Bhopal mette in luce quante controversie e incoerenze possano stare dietro un pensiero economico fondato esclusivamente sul profitto e sull’abbattimento dei costi. Da una parte vi è un’unica entità con a capo una società capogruppo che gestisce una determinata attività industriale. Dall’altra vi sono individui gravemente lesi da un evento completamente al di fuori del loro controllo. Perché ci si deve spingere sempre fino al punto di proteggere chi veramente è causa del disastro e penalizzare le persone che sono costrette a lavorare in condizioni disastrose che, pur di guadagnare una piccola miseria, sono disposti a rischiare la vita per un colosso che li comanda dall’alto? E poi, siamo sicuri che l’esportazione dei rischi, che si realizza collocando attività particolarmente pericolose in zone senza livelli normativi adeguati per la tutela dei diritti umani e ambientali, sia il metodo economico corretto per migliorare il pianeta? Personalmente penso che chi intraprende questa politica economica debba perlomeno fare i conti con la propria coscienza. Rendersi conto che per il suo mero profitto mette a rischio vita umane ed interi ecosistemi che seppur a chilometri di distanza sempre vite umane rimangono. Certo, il sistema capitalistico inteso in questo senso potrebbe durare ancora per cinquanta forse cento anni, ma noi? Abbiamo così tanto tempo?