A cura di Laura Cicirata
Mentre si avvicinano le elezioni europee, giornali, social media e report conducono alla ribalta dei riflettori il tema delle fake news come decisivo per cambiare il paradigma linguistico e comunicativo che la classe politica deve instaurare con i cittadini, rappresentandola come un’urgenza.
Da diversi anni le fake news hanno acquisito un dominio incontrastato sul piano della comunicazione e dei social, soprattutto rispetto ad alcuni argomenti di attualità come ad esempio il dibattuto tema dei vaccini, la questione ambientale e molti altri ancora, riuscendo, in alcuni casi, a mantenere alta l’attenzione attraverso l’invenzione di notizie decontestualizzate e trasmesse con linguaggi accattivanti e suscitando “indignazione mediatica” da parte di utenti sprovvisti di mezzi di confronto rispetto alla veridicità della notizia. Uno di questi temi è quello delle migrazioni, in particolare per quanto riguarda l’immigrazione nel nostro Paese.
Il processo migratorio che ha interessato i confini italiani trova il suo inizio decenni fa, ma l’aumento consistente e continuativo di un importante flusso immigratorio all’interno del nostro Paese si ha avuto dopo il 2011, ossia dopo i movimenti popolari e sociali conosciuti come Primavere arabe; le strutture atte a rispondere ad una richiesta sempre maggiore di domande d’asilo politico e ricongiungimenti famigliari ha imposto all’allora sistema di accoglienza una revisione consistente di tutto l’apparato burocratico e istituzionale dedicato ad affrontare questo tipo di emergenza.
In un secondo momento, con il placarsi dei flussi migratori provenienti dai paesi dell’area del Maghreb, sono aumentati gli arrivi di persone provenienti da Paesi dell’Africa Sub Shariana, in fuga da situazioni di grave conflitto, povertà, disagio economico e disastri ambientali; questi arrivi hanno richiesto un’importante struttura di accoglienza in grado di garantire il rispetto e la tutela delle persone che, non avendo alternative legali praticabili per raggiungere l’Europa, giungevano tramite mezzi di fortuna via mare.
La scarsa narrazione e spiegazione di questo fenomeno e in alcuni casi, forse, anche la poca trasparenza che questo cambiamento ha portato con sé, ha alimentato il pensiero, oggi diffuso, che non ci fosse chiarezza e sistematicità nel processo di accoglienza e quindi ciò ha contribuito alla creazione di un intrecciato schema di pregiudizi e luoghi comuni sostenuti da false notizie, fatti di cronaca inventati, diffusioni di immagini false e decontestualizzate che hanno alimentato il timore e la diffidenza verso chi raggiungeva le nostre coste in cerca di un futuro diverso, magari migliore.
Le forze politiche che in questi anni, e negli ultimi mesi con forza, hanno dato spazio e spesso utilizzato questo meccanismo di distorsione delle informazioni e di narrazioni superficiali, in molti casi infondate, rispetto al fenomeno migratorio, oggi si trovano a prestare il fianco e a supportare questo tipo di comunicazione falsificante la realtà; ma tutto questo potrebbe inesorabilmente rivelarsi fallace nel momento in cui la mancanza di fonti e di attendibilità crei un livello di confusione tale da non riuscire più ad essere gestito e controllato, men che meno utilizzato a propri scopi elettorali e personali.
L’Unione Europea sta cercando di tutelare le istituzioni e il valore che esse rappresentano, dotandosi di alcuni strumenti come l’European External Action Service (EEAS), un’agenzia che raccoglie ricercatori e studiosi del settore che cercano di individuare strumenti adatti a contrastare la disinformazione, diffusa soprattutto attraverso i social network, difficilmente gestibili e monitorabili.
Resta da chiedersi se questi strumenti con cui l’Unione Europea cerca di tutelarsi, riescano a rivelarsi efficaci ed efficienti contro il dilagare dell’analfabetismo funzionale che da anni costituisce una piaga culturali in molti Paesi, tra cui l’Italia.
Dall’avvento della rivoluzione digitale nel giornalismo, e con l’introduzione delle all news, ossia di giornali (trasmessi attraverso la televisione oppure tramite siti internet) che pubblicano ininterrottamente un flusso continuo di notizie, aggiornandole in diretta tramite eventuali comunicazioni delle agenzie di stampa o da inviati sui luoghi da cui proviene la notizia.
A partire dalla fine degli anni ’90 e in modo particolare nei prima Duemila, il web ha consentito ad un numero sempre più elevato di lettori e telespettatori di diventare anche (o solo) utenti e fruitori delle notizie a mezzo internet.
La velocità e la rapidità di sostituzione di una notizia con l’altra ha dato vita ad una differenziazione tra soft news e hard news[1]; nel caso delle prime si hanno notizie leggere, spesso di carattere commerciale e superficiale, di facile comprensione e scarso approfondimento, nel caso delle seconde invece, si tratta di notizie di carattere economico e politico, dotate di approfondimenti, dettagli, linguaggio tecnico e spesso riproposte con l’aggiunta di pareri di esperti e tecnici di settore.
Come risulta facile immaginare, nell’epoca delle all news, le soft news hanno la meglio, se non la precedenza: gli utenti “consumano” la notizie nel giro di pochi minuti attraverso un veloce sguardo allo smartphone o al tablet e questo processo facilita la diffusione di una mercificazione della notizia che porta al fenomeno cosiddetto dell’infotainement, ben descritto da Oliviero Bergamini: “I notiziari televisivi americani si caratterizzano sempre più per una scarsa attenzione alla politica, una cronaca spesso a tinte forti, frammista a servizi dedicati a storie “ad effetto”; il tutto fortemente condizionato dall’esigenza di fare ascolto e non turbare gli spettatori con servizi il cui tono sia dissonante rispetto agli spot pubblicitari da cui i notiziari sono scanditi.”[2]
L’età digitale nella quale viviamo ci ha portati a sentire il termine fake news risuonare nei media, nelle trasmissioni televisive, negli articoli di giornale e soprattutto sui social, conduttore privilegiato, in modo incessante e pressoché quotidiano.
In base a quanto detto finora, la soluzione sembra essere una sola ed è il fact checking ossia la verifica delle informazioni che recepiamo. Sebbene la soluzione possa sembrare a portata di mano, è altresì evidente che si tratta di una soluzione molto difficile da mettere in pratica, data l’enorme massa di informazioni che ci arriva ogni giorno tramite i mass media e, soprattutto nel caso di internet, attraverso fonti la cui affidabilità in molti casi non è controllabile in alcun modo.
Spesso può sembrare che i fruitori dei social e delle varie piattaforme virtuali siano esperti di qualsiasi argomento, dalla medicina all’agricoltura, dall’architettura alla giurisprudenza; controllare la veridicità delle notizie è un compito molto dispendioso in termini di tempo e rivolgersi solo a fonti considerate ufficialmente attendibili limiterebbe notevolmente il vantaggio apportato dalla libera circolazione delle idee sul web.
Nel nostro contemporaneo sistema mediale cambiano e si moltiplicano media e produttori di informazione in un ambiente caratterizzato da frammentazione, complessità, interdipendenza, e transizione.
Da una parte abbiamo i fattoidi, “eventi mai avvenuti, dotati di peculiarità e caratteristiche anomale e curiose, ma plausibili e verosimili, sul cui conto, nel tessuto sociale o in alcuni ambienti di esso circolano indizi”[3].
Dall’altra ci sono le bufale: “notizie di eventi non avvenuti, appositamente approntate, da soggetti del tipo più disparato, esterni alle redazioni, per essere introdotte nel circuito dei mass media”[4]. Spesso si tratta di scherzi, l’invenzione di anonimi produttori di beffe dalle oscure motivazioni. Tali autori scovano le falle del non irreprensibile sistema di verifica delle redazioni.
I 140 caratteri di un tweet, il bisogno di comporre un breve titolo per l’ultimo post di un blog, quello di comporre l’immagine e le etichette (hashtag) su instagram, la scelta del colore o il link a cui abbinare il breve commento dell’aggiornamento di stato su Facebook sono tutte procedure che riproducono e socializzano il gergo e la grammatica orale dell’informazione giornalistica sul web in milioni di atti quotidiani.
Il ruolo produttivo delle audience è traducibile in una trasformazione delle relazioni e del linguaggio grazie all’invito all’uso della tecnologia utilizzata: è il medium che forma, il mezzo diventa il messaggio.
L’esplosione del giornalismo online e dell’informazione propagata da fonti e testate non tradizionali ha, come già visto, messo il giornalismo tradizionale di fronte a un bivio: adattarsi ai nuovi standard, oppure garantire un tipo di informazione basata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, col rischio di arrendersi alla concorrenza.
Talvolta è successo che anche testate giornalistiche nazionali con un processo rigoroso di selezione degli articoli abbiano erroneamente riportato articoli falsi come pubblicazioni.
Qualcuno sostiene che certi tipi di errori possano succedere solo come scelta “maliziosamente condivisa dalla redazione” per riuscire a concorrere con altre testate lette e consultate dagli utenti; esse sembrano piuttosto essere state quasi costrette ad accettare di pubblicare contenuti “open-access”, dato che la porzione più consistente di introiti, oltre che dalla pubblicità, deriva appunto dalle sottoscrizioni.
I media tradizionali, e i loro giornalisti più autorevoli, cadono molto spesso nell’inganno del new journalism. Non che prima dell’avvento del big data journalism tutto ciò non si verificasse, ma è indubbio che un incentivo importante nella produzione e distribuzione di notizie non verificate adeguatamente derivi dalla crescente concorrenza online e dal fatto che sempre più il clickbaiting, con gli introiti pubblicitari ad esso connessi, renda necessaria la creazione di contenuti il più possibile “virali”.
In merito al guadagno che diffondere bufale sul web possa comportare, può essere utile citare un articolo dell’Espresso (16 ottobre 2016)[5] il quale intervistava un giovane ragazzo che per guadagnare qualche euro scriveva e pubblicava, incoraggiandone la condivisione, false notizie, inventate di sana pianta, ma con l’intento di fare in modo che potessero essere visualizzate dal maggior numero di persone in modo da guadagnare in pubblicità e banner.
«Poche persone riescono ad essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo». Questa citazione attribuita a Bertrand Russell (1872-1970), filosofo gallese premio Nobel per la letteratura nel 1950, è oggi più che mai attuale se consideriamo la diffusione dell’hate- speech (discorso d’odio) su Internet, ossia di frasi e discorsi che incitano all’intolleranza e alla violenza nei confronti di una persona o di una categoria sociale e che possono sfociare in reazioni aggressive concrete contro le vittime.
Non è certo una questione nuova, ma il ricorso a Internet e in particolar modo all’uso di fake news, come mezzo per l’incitamento all’odio solleva numerose domande, imponendo la ricerca di risposte adeguate a livello giuridico e di mezzi per contrastare queste pratiche ispirate alla violenza.
L’hate speech può assumere varie forme e va inteso in un senso ampio, fino a includere qualsiasi elemento in grado di configurare una comunicazione espressiva, anche non verbale, che veicoli un messaggio d’odio nei confronti di un singolo o di un gruppo specifico.[6]
Delimitare i contorni dell’hate speech diviene più complicato quando l’ambito di esplorazione è quello della Rete, con i suoi confini sfumati.
La sfera non è popolata solo da soggetti istituzionalmente preposti alla produzione dell’informazione (giornali, televisioni, editori, centri universitari, ecc.), ma anche, e in modo crescente, da soggetti individuali, non professionisti, fruitori del web, che costituiscono una galassia di fonti informative informali. Ogni giorno tutti noi, in modo più o meno consapevole, possiamo condividere online informazioni o contenuti, che potrebbero essere potenzialmente discriminatori e usati per attaccare determinate categorie di persone.
L’utilizzo di questa massa di informazioni e notizie è condizionata dalla discrepanza esistente nell’opinione pubblica tra la percezione di alcuni fenomeni e la loro consistenza oggettiva.
Un sondaggio di IPSOS-Mori condotto periodicamente in diversi Paesi e intitolato Perils of perception[7] mostra che i dati reali su alcuni temi di estrema attualità e spesso scottanti sono quasi sempre molto lontani dalla percezione diffusa, come ad esempio la presenza di musulmani in un Paese, il numero di migranti, il tasso di disoccupazione o l’ammontare della spesa sanitaria.
Questa erronea percezione della realtà facilita la circolazione di informazioni parzialmente o del tutto false attraverso la Rete e i social media, che permettono di raggiungere in pochi secondi milioni di persone e di convogliare in malessere, qualunquismo, sofferenza, superficiali argomentazioni e volgarità su alcuni bersagli sociali.
Fonte: “Un’Italia frammentata: atteggiamenti verso identità nazionale, immigrazione e rifugiati in Italia”, Tim Dixon, Stephen Hawkins, Laurence Heijbroek, Míriam Juan-Torres, François-Xavier Demoures, More in Common, Ipsos, SCI, Agosto 2018
Fonte: “Un’Italia frammentata: atteggiamenti verso identità nazionale, immigrazione e rifugiati in Italia”, Tim Dixon, Stephen Hawkins, Laurence Heijbroek, Míriam Juan-Torres, François-Xavier Demoures, More in Common, Ipsos, SCI, Agosto 2018
Attualmente non esiste una normativa penale ad hoc per contrastare l’hate speech: il vuoto giuridico è colmato dall’applicazione delle norme relative ai reati di incitamento all’odio razziale, propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale, ingiuria, diffamazione e minaccia. Il testo legislativo di riferimento è la cosiddetta Legge Mancino (L. 25 giugno 1993, n. 205), approvata in seguito a una recrudescenza di episodi di razzismo, che prevede un’aggravante per i reati, inclusi quelli di opinione, quando c’è una motivazione razzista, xenofoba o di intolleranza religiosa.
Esiste poi il Protocollo Addizionale della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, cybercrime (2004), firmato nel 2011 ma non ratificato dall’Italia e da altri Stati membri, i cui principali obiettivi sono l’armonizzazione del diritto penale degli Stati ed il miglioramento della cooperazione internazionale per il contrasto contro il razzismo e la xenofobia su internet.
L’UE ha adottato, inoltre, una Direttiva sui diritti delle vittime di crimini, che impone agli Stati membri di tenere particolarmente conto delle vittime vulnerabili, come coloro che subiscono crimini d’odio (IP/12/1200). Infatti, l’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA) ha pubblicato due relazioni a novembre 2012 sulle vittime di crimini d’odio che dimostrano che tali crimini sono un problema quotidiano in tutta l’UE, ma che molti di questi crimini non vengono denunciati, perseguiti e puniti.[8]
La complessità del fenomeno migratorio che da diversi anni interessa il nostro Paese e l’Unione Europea, mettendone per certi versi in difficoltà i cardini di democrazia e solidarietà, ha portato con sé l’apertura di una finestra nuova sulle percezioni, talvolta distorte, della popolazione che attraverso i media si informa, o per lo meno, ritiene di poterlo fare, cercando un punto di vista attendibile che riporti aspetti della realtà.
Diversi studi, come: il rapporto dell’Associazione Carta di Roma sulla narrazione dell’immigrazione attraverso le principali fonti di informazione; i sondaggi di Demos, Istat e Censis volti a sondare le sensazioni e le esperienza degli italiani rispetto al tema delle immigrazioni; le ricerche della Commissione Europea sulla diffusione e l’utilizzo dei social media e degli effetti che questi hanno sugli utenti che li utilizzano, e molti altri che per ragioni di selezione dei contenuti non mi è stato possibile riportare; evidenziano come la comunicazione in merito ai processi di integrazione, alle politiche migratorie e agli sviluppi che il sistema di accoglienza ha avuto in anni recenti, sia distorta e faziosa, spesso con caratteristiche e orientamenti razzisti, intolleranti e xenofobi, per lo più caratterizzati da un linguaggio semplificato, poco ricercato, elementare e in molti casi grammaticalmente scorretto.
Una delle principali accuse che i fautori di questo tipo di comunicazione fuorviante muovono all’establishment e contro chi ne sostenga l’erronea interpretazione dei fatti, è che la distanza tra la classe dirigente e i cittadini è andata aumentando negli ultimi anni e conseguentemente anche l’efficacia della comunicazione tra i diversi attori della scena politica si è assottigliata fino a ridursi a brevi frasi ad effetto, quasi pubblicitarie, e ad un abbassamento del livello di approfondimento e di analisi dei temi trattati e di interesse collettivo. Questo cambio di linguaggio, evidente soprattutto dopo l’avvento e la diffusione capillare dei social, ha fortemente incrinato anche la comunicazione politica e compromesso la capacità di confronto dialettico tra posizioni contrarie, estremizzandone i principi, fino a riprodurre tra le parti in gioco una dinamica riconducibile all’ambito sportivo più che ad una confronto tra membri delle istituzioni.
Tutto ciò pregiudica la nostra capacità di recepire, selezionare e comprendere gli stimoli che veicolano informazioni importanti per noi.
Questo fenomeno ne innesca un altro: se la capacità di prestare attenzione diminuisce, e se contemporaneamente cresce la disponibilità di informazione, la competizione per catturare la scarsa attenzione delle persone si intensifica a dismisura. E si gioca su emozioni forti come rabbia e paura, su titoli urlati, sulla tossica capacità di sorprenderci delle notizie false.
Ciò comporta un aumento dell’informazione disponibile, un aumento della fatica preliminare e aggiuntiva di analizzare e selezionare ciò che serve, e infine un aumento della quantità di decisioni da prendere, della fatica, del senso di inadeguatezza, e dell’indifferenza verso tutto ciò che richieda uno sforza di comprensione specifico.
Questo fenomeno alimenta anche la diffusione delle fake news: come già precedentemente detto, un’occhiata generica e rapida dello schermo di un dispositivo, permette di leggere solo titoli scritti a caratteri cubitali e parole accattivanti che attirano la nostra attenzione, più facilmente se si tratta di vocaboli che richiamano al gossip o allo scandalo, ciò incoraggia la semplificazione e la banalizzazione di quasi tutti i temi di attualità, aumentando la probabilità che certe notizie false vengano ritenute vere e viceversa.
In questo universo di influencers, haters, tweet e like sembra che tutto debba rimanere ad un piano superficiale e scarsamente approfondito, ma così non è. E’ necessario approfondire, conoscere e saper argomentare in modo oggettivo le proprie posizioni e, è bene non dimenticarlo, solo con un potenziamento dello studio di tale fenomeno fin dalla scuola primaria, il sistema comunicativo odierno potrà essere in grado di fronteggiare le eventuali distorsioni e mancanze che minano il dialogo costruttivo.
[1] “La democrazia della stampa”, Oliviero Bergamini, p. 397, Editori Laterza, 2006
[2] “La democrazia della stampa”, O. Bergamini, Editore Laterza, p.401, 2006.
[3] “Falsi giornalistici, finti scoop e news quotidiane”, S. Casillo, F. Di Trocchio, S. Sica, Guida Editore, 1997
[4] Ivi, p.32
[5] http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/10/15/news/vi-racconto-come-ho-fatto-soldi-a-palate-spacciando-bufale-razziste-sul-web-1.234576
[6] “L’hate speech al tempo di internet”, R. Bortone e F. Cerquzzi, Aggiornamenti Sociali, Dicembre 2017 (pp. 818-827)
[8] “Dall’odio all’hate speech. Conoscere l’odio e le sue trasformazioni per poi contrastarlo”, F. Cerquozzi, Tigor: rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica, 2018