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Appunti di Cooperazione Internazionale

Appunti e dubbi sul “Decreto Sicurezza”.

A cura di Laura Cicirata.

Da mesi si parla dell’ormai celebre Decreto Sicurezza (d.l. 113/2018) che ha visto la luce il 5 ottobre e che a breve concluderà il suo iter parlamentare entrando definitivamente in vigore.

I temi principali, nonché i motivi che, a detta dei sostenitori, ne hanno evidenziato i caratteri di necessità ed urgenza, sono l’immigrazione e il sistema di accoglienza, il quale da diverso tempo è funzionale a gestire e a cercare di strutturare il fenomeno migratorio verso il nostro Paese.

Ma cosa prevede questo decreto, per quanto riguarda la gestione dell’immigrazione?

E, soprattutto, si tratta davvero di uno strumento finalizzato alla riduzione dell’insicurezza sociale?

In passato ci sono stati diversi momenti in cui il legislatore si è adoperato per riorganizzare i flussi migratori: nel 1998 con il Testo Unico sull’Immigrazione in cui la possibilità di soggiornare in Italia è stata strettamente connessa alla possibilità di lavorare sul territorio; nel 2009 con il Pacchetto Sicurezza in cui si è legato il tema migratorio con quello della (in)sicurezza e della gestione più rigida dell’immigrazione illegale; nel 2017 con il Decreto Minniti-Orlando che ha irrigidito il sistema di accoglienza, introducendo un elemento di diffidenza nei confronti di chi, sin da tempi non sospetti si occupava di assistenza e orientamento dei migranti, confondendo la professionalità con il lucro; e infine il recente decreto legge 113 del 2018 che ha definitivamente precarizzato l’ingresso e la permanenza sul territorio nonché messo in dubbio il principio stesso della cittadinanza.

Quali sono le fasi che sono state interessate dal decreto?

La fase di ingresso sul territorio, con un estremo ampliamento del trattenimento nel luogo di arrivo, prevede un’accelerazione dell’analisi delle richieste di asilo chieste da coloro che hanno oltrepassato i confini nazionali, con un’identificazione in un periodo di tempo che va da un minimo di 30 giorni ad un massimo di 180; a coloro i quali le Commissioni preposte individueranno i requisiti sarà rilasciato un permesso di soggiorno (con una delle caratteristiche che vedremo in seguito), a chi invece verrà diniegato verrà rilasciato un foglio di via con divieto di permanenza sul territorio nazionale.

Salvo poi l’impossibilità di procedere all’effettivo rimpatrio degli stessi, vista l’assenza di accordi bilaterali con i Paesi di provenienza, e quindi un aumento del numero di persone presenti in modo irregolari.

Tra le altre modifiche introdotte dal decreto vi è poi la cancellazione del Permesso di soggiorno per Motivi Umanitari, un permesso mai disciplinato completamente ma grazie al quale è stato possibile garantire il rispetto del Diritto d’Asilo, previsto dall’articolo 10 della Costituzione.

Il Permesso per Motivi Umanitari, per come era conosciuto fino a poco prima della sua abrogazione, veniva rilasciato a coloro che avevano mostrato una concreta volontà di integrazione attraverso l’inserimento sociale e lavorativo oppure a coloro che erano interessati da particolari e gravi problemi di salute; della durata di due anni, prevedeva la possibilità di essere convertito in Permesso di Lavoro per coloro i quali nel corso dei due anni avessero trovato un’occupazione e al momento del rinnovo del permesso ne avessero fatto richiesta.

 

La cancellazione di questo permesso, il più diffuso tra quelli rilasciati negli ultimi anni (per “diffusione” si intende che del 40% di coloro che ottengono una qualche forma di protezione, al 21% viene dato un Permesso per Motivi Umanitari), comporta una serie di problemi, tra i quali: l’impossibilità di poter chiedere la conversione per motivi di lavoro al momento della scadenza e quindi, perdere la possibilità di continuare ad esercitare la propria professione, andando ad ingrossare le file degli irregolari già presenti sul territorio; la CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) all’articolo 8 intima agli Stati aderenti (tra i quali l’Italia) di non violare la vita privata e famigliare e le attività sociali delle persone ci vivono al suo interno, pertanto non rinnovare il permesso significa non rispettare la CEDU, perché vengono negati alla persona l’inserimento sociale e le relazioni che fino ad ora aveva costruito, inficiando così la qualità della sua vita privata e famigliare.

Al posto del permesso per motivi umanitari sono stati introdotti altri tipi di permesso con caratteristiche e modalità di ottenimento più rigide e limitanti: Il permesso di protezione speciale della durata di un anno, con la possibilità di trovare un lavoro ma non convertibile in permesso di lavoro, il permesso per Casi Speciali (previsto per coloro che risultano essere vittime di tratta, vittime di sfruttamento lavorativo o domestico); il permesso per cure mediche che non ha una durata prestabilita, dipende dal tempo necessario per ottenere le cure, e non è convertibile in permesso di lavoro; il permesso per calamità, previsto per situazioni “contingenti” e “eccezionali” (ossia per calamità naturali che non hanno una durata prolungata nel tempo: paradossalmente questo tipo di permesso potrebbe essere riconosciuto a persone che provengono da luoghi colpiti da alluvioni, ma non da chi si è allontanato da zone interessate da una crescente desertificazione…); il permesso per valori civili, il quale si richiama ad una legge del 1958 senza però definire in modo approfondito quali siano gli “atti eroici degni di lode” che uno straniero potrebbe compiere per vedersi riconosciuto questo tipo di permesso.

Inoltre, per coloro i quali non viene riconosciuto alcun titolo di protezione, il tempo disponibile per poter presentare un ricorso contro il giudizio della Commissione Territoriale si riduce da 30 a 15 giorni con un aumento della possibilità di rifiuto anche in sede di udienza, in quanto è stato previsto un ampliamento dei casi di manifestata infondatezza delle richieste, andando a ricomprendere: il rifiuto a rilasciare le impronte, l’appartenenza del Paese di provenienza alla lista dei Paesi considerati sicuri dal Governo Italiano, la domanda tardiva della richiesta di asilo, l’omissione o la non completezza dei documenti.

Ci sarebbero molti altri aspetti che meriterebbero di essere approfonditi ma si rischierebbe di cadere in lungaggini e tecnicismi che richiederebbero molto tempo per essere descritti in modo esaustivo e completo.

Questo breve elenco di alcuni degli elementi contenuti nel decreto sicurezza, aggiunti ad altri di più immediata comprensione come la riduzione dei famigerati 35 euro al giorno (cavallo di battaglia della campagna elettorale mai conclusa), la destrutturazione dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), l’annullamento dell’obbligo di frequenza scolastica rappresentano la chiara intenzione di annullare completamente il processo di integrazione che richiede tempo, competenze e risorse.

Tutto pare finalizzato ad un aumento del bacino di illegalità nel quale molte persone finiranno in seguito alle modifiche introdotte dal decreto, obiettivo che stona rispetto alle promesse fatte da diversi leader politici che da tempo sostengono il contrario.

Resta da capire come la tanto decantata integrazione sia possibile con i tagli dei fondi per la scolarizzazione e dei servizi di inserimento sociale e la banalizzazione del lavoro di numerosi professionisti che quotidianamente accompagnano i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale nello svolgimento e nella comprensione delle pratiche burocratiche e legali.

L’unica certezza rimane, oltre all’allargamento delle fila degli irregolari presenti sul territorio, è che circa 18 mila persone impiegate nel sistema di accoglienza, per lo più giovani educatori, psicologi, mediatori, coordinatori, amministrativi e operatori si ritroveranno senza lavoro e con un declassamento sociale della loro professionalità ed esperienza.

Le prospettive, insomma, non sono delle migliori.

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Questa voce è stata pubblicata il 17 novembre 2018 da in Migrazioni, Sicurezza con tag , , , , , .
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