A cura di Martina Ramponi
CAPORALATO
La dura realtà delle condizioni di vita dei braccianti stranieri.
Yahaya dal Ghana, accolto in una struttura per minori stranieri non accompagnati a Milano, ha da poco compiuto i suoi diciotto anni e da maggiorenne, senza lavoro, la sua decisione è stata quella di ripartire per il sud Italia, lì ha degli amici che lavorano già nei campi e anche se la paga non è molto alta almeno è un lavoro sicuro. Vano il tentativo di dissuaderlo da questa folle decisione: Yahaya non lo sa ancora, ma finirà nella rete del caporalato. Sono tanti i giovani uomini e donne che, come Yahaya, presi dalla disperazione finiscono a lavorare per pochi euro come braccianti nelle nostre campagne, da Nord a Sud.
Il termine caporalato deriva dal termine caporale, ossia colui che per conto dei proprietari agricoli reperisce manodopera a basso costo. Il caporale infatti è un intermediario il cui guadagno è rappresentato da un compenso corrisposto sia dal committente che dal lavoratore. Il caporalato è un’attività che si concentra nelle mani della criminalità organizzata, con lo scopo di sfruttare il lavoro dei braccianti, anche se non mancano fenomeni simili nell’edilizia, nel commercio e nella ristorazione. Queste le condizioni a cui devono sottostare i lavoratori:
Nella stragrande maggioranza dei casi, e in particolare per le raccolte agricole più pesanti e meno qualificate, i braccianti provengono prevalentemente dall’Africa e dall’Europa dell’Est. Il nuovo caporalato è per lo più associato alle regioni meridionali e alla raccolta stagionale dei pomodori, delle arance, delle angurie nel Tavoliere, nella Piana di Gioia Tauro, in Lucania o in Salento e proprio in tali aree sono emersi i peggiori casi di sfruttamento e di neo-schiavismo. Ma il fenomeno non riguarda unicamente il Sud Italia. Secondo dati forniti dalla campagna «Stop caporalato», lanciata nel 2011 dalla Flai-Cgil e dalla Fillea-Cgil, oggi in Italia almeno 60 mila lavoratori vivono in condizioni di assoluto degrado, in alloggi di fortuna e sprovvisti dei minimi requisiti di vivibilità. L’incidenza del lavoro nero sarebbe del 90% nelle regioni del Mezzogiorno, del 50% nelle regioni centrali, del 30% in quelle settentrionali. In Puglia, come in altre regioni del sud Italia, nell’ultimo decennio si sono formati dei veri e propri “ghetti” fatti di baracche, in cui vivono migliaia di braccianti stranieri. Spesso sono sorti a ridosso delle vecchie borgate agricole disabitate, altre volte sono sorti spontaneamente.
È grazie a questo sistema di sfruttamento, fatto di ritmi bestiali, salari da fame e condizioni di vita disumane che, ad esempio, i pomodori coltivati nella provincia di Foggia percorrono le strade di tutta Europa (l’80% della produzione è destinato all’export). Uno dei più importanti produttori del foggiano, Antonino Russo, ha recentemente venduto la sua azienda a Princes Italia, una società britannica controllata dalla multinazionale giapponese Mitsubishi; dietro un sistema di gestione del lavoro mafioso e paramafioso – in cui grande distribuzione, imprenditori locali e aziende straniere vanno a braccetto con la criminalità locale – vi è un mercato i cui ricavi sono stati, lo scorso anno, di 272 milioni di euro e un’esportazione di 22 milioni di quintali di prodotti ortofrutticoli nei primi sei mesi di annata agraria del 2018. Già a questo punto possiamo vedere come il caporalato non sia il prodotto, ma l’ingranaggio di un sistema economico esteso e ben collaudato in grado di muovere ingenti capitali. Il caporalato è parte integrante di un sistema di produzione che basa la sua economia sullo sfruttamento, che garantisce il contenimento dei costi dei prodotti. Secondo i dati rilasciati dall’ultimo rapporto dell’osservatorio Placido Rizzotto il caporalato regola il 39% dei rapporti di lavoro in agricoltura, con 430mila lavoratori coinvolti, di cui l’80% è costituito da stranieri.
Ma salari bassi e condizioni estreme di sfruttamento permangono anche in assenza di caporalato, come in Piemonte, dove a Saluzzo 200 lavoratori migranti vivono dentro tende o dormono sotto teli di nylon nel Foro Boario, una spianata di asfalto sotto il sole, perché il dormitorio allestito dal Comune non ha posti a sufficienza. In Piemonte, dove i finanziamenti dell’UE alle imprese agricole ammontano a un miliardo di euro, i salari dei braccianti non superano i 3,50 euro all’ora. Diventa quindi impossibile per questi lavoratori potersi permettere un’abitazione decente; a questo si vanno ad aggiungere le durissime condizioni di lavoro. Insomma, l’utilizzo del caporalato, con la riduzione in schiavitù, di fatto, di migliaia di lavoratori e lavoratrici del settore, i salari da fame, che si accompagnano a soluzioni abitative disumane, diventano fondamentali all’interno di questo modo di produzione, necessari per garantire il basso costo del lavoro e di conseguenza quello del prodotto finale venduto “in offerta” sugli scaffali dei nostri supermercati.
Ed è da questa situazione così grave e crudele che si alzano forti le voci di chi non vuole più accettare questa situazione e vuole lottare contro sfruttamento, odio razziale e indifferenza. E’ il caso di Jean Pierre Yvan Sagnet giunto in Italia dal Camerun, dove è nato, nel 2007, grazie ad una borsa di studio. Si iscrive alla facoltà d’ingegneria dell’Università di Torino, ma si ritrova presto in difficoltà economiche: i soldi della borsa di studio non sono sufficienti, decide di recarsi al Sud dove serve manodopera per la raccolta di angurie e pomodori. Si reca a Nardò, nella provincia di Lecce. Qui entra in contatto con la cruda realtà del caporalato, contro la quale reagisce e si fa promotore di rivolte che lo portano ad essere il leader del primo sciopero dei braccianti stranieri nelle campagne di Nardò e Rosarno nell’agosto del 2011. Sagnet, nonostante le minacce di morte che riceve, porta avanti il suo impegno. Dalle sue denunce, unite a quelle di altri 13 extracomunitari, nel 2009 partono le indagini dei Ros di Lecce (operazione Sabr) che smascherano una struttura piramidale formata da: imprenditori locali che costituiscono il vertice, seguita dai reclutatori africani di braccianti e, a seguire, i caporali e capi squadra. Nel 2012 vengono arrestate 16 persone appartenenti a un’organizzazione criminale attiva tra Rosarno, Nardo e altre città della Puglia. Si arriva al primo processo istituito in Italia per i reati di sfruttamento criminale di manodopera e riduzione in schiavitù di lavoratori stranieri, contro 7 imprenditori salentini e 8 cittadini stranieri. Jean PierreYvan Sagnet si presenta come parte civile e testimone. Il 21 settembre 2017 il procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone, nell’ambito del processo richiede condanne per i 15 imputati, che complessivamente superano i 150 anni di carcere. Nel 2013 si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni, al Politecnico di Torino e, attualmente è sindacalista per la federazione Lavoratori AgroIndustria Flai-Cgil.
Continua, quindi, la sua battaglia in prima linea contro lo sfruttamento dei braccianti agricoli che lo vede impegnato anche come vice presidente del Cetri – Tires No profit, associazione di respiro internazionale che promuove processi di sostenibilità sociale ed energetica in 14 paesi. Mentre collabora nello sviluppo della rete europea NO CAP, formata dagli attivisti che in Europa elaborano strategie anti-caporalato e un sistema di certificazione per le aziende che mettono al centro del loro operato il lavoratore e non il profitto.
Non solo secondo Jean Pierre vi è la possibilità di mettere al centro il lavoratore e non il profitto un caso singolare e di modello alternativo al caporalato è quello di Maramao una Società Cooperativa Agricola Sociale, nata nel 2014 da una idea della Cooperativa CRESCEREINSIEME.
I terreni su cui sono coltivati gli ortaggi di MARAMAO sono di proprietà di privati che hanno affittato a basso costo o concesso in comodato gratuito terreni tra Canelli e Calamandrana, condividendo con la cooperativa l’obiettivo di far nascere una impresa agricola sociale che coltivi in modo biologico i terreni, coinvolgendo alcuni dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ospiti dei progetti SPRAR della provincia di Alessandria, di cui il comune di Canelli e Calamandrana sono tra i firmatari. Obiettivo della cooperativa agricola sociale che coltivare, produrre e trasformare non solo prodotti agricoli ma anche relazioni, approcci e modi di guardare all’altro.
Accanto alla produzione di ortaggi, cereali, uva, nocciole e prodotti trasformati quali passate di pomodoro marmellate, succhi di frutta, pane e vino coltivati e prodotti secondo tecniche di agricoltura biologica, si lavorerà per promuovere integrazione sociale, benessere delle persone coinvolte, relazioni di fiducia sul territorio tra chi coltiva e chi consuma i prodotti, possibilità formative e di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati tra i quali i richiedenti asilo e rifugiati presenti sul territorio.
La SCAS con il suo approccio da start up in pochi anni è riuscita a diventare una vera e propria società simbolo di integrazione e di lavoro in cui i veri valori sono i lavoratori; compresi e riconosciute come persone e le relazioni che nascono tra persone e che a loro volta possono far nascere profitto. Meno quantificabile di una cassa di pomodori, ma pur sempre profitto.
Riferimenti:
Nella terra di nessuno. Rapporto Progetto Presidio 2015.pdf
nmigration.caritas.it/progetti-e-iniziative/progetto-presidio
Io ci sto” – Un viaggio tra volontari e migranti nella Puglia del caporalato
https://www.internazionale.it/opinione/alessandro-leogrande/2015/08/28/sfruttamento-caporalato