A cura di Stefano Fogliata
“Footballization” è un documentario in arrivo sul grande schermo dagli improbabili campi da calcio nei campi profughi in Libano. Storie di vita e di sport intrecciate lungo un’intera stagione calcistica, raccontate da un campo profughi palestinese, Borj-el Barajneh, un chilometro quadrato nella periferia sud di Beirut, passato da 25mila a 45 abitanti nel giro di pochi anni, con l’arrivo dei profughi siriani in fuga dalla devastante guerra civile di Damasco. Diretto dal regista Francesco Furiassi sulla scia del mio lavoro e gioco di ricerca iniziato nel 2016, Footballization è apparso sulla scena lo scorso mese in prima serata su Rai3 grazie all’invito del Kilimangiaro ed inizierà il Tour di presentazioni dal prossimo autunno.
La finale del Mondiale dominato dalla Francia si è portata via con sé infinite polemiche sulla quale fosse la squadra più “cool” da supportare. Banalizzando il dibattito e portando a quell’infimo livello dominato da quel “fenomeno” che ci ritroviamo a Ministro degli Interni, la scelta su chi tifare divideva il campo tra una Croazia “bianca e nazionalista” e un’Africa nera a vestire le maglie dei Blues. Ma non è certo dal 2018 che il binomio “calcio-politica” in salsa nazionalista domina la scena fuori dai campi da gioco, soprattutto in occasioni di Mondiali e altri grandi eventi dove la logica dei “22 co***oni che corrono dietro ad un pallone” si prende una pausa per dare adito alle strumentalizzazioni di chi evidentemente non ha mai vissuto il calcio per quello che è in tutto il mondo. Diceva Mister Zeman:
“La grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari (e agli Adinolfi di turno, aggiungo io), bensì al fatto che in ogni piazza in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco.”
Louay, Yazan e Rami – 3 dei protagonisti di Footballization- sin da piccoli giocavano insieme sui campi da calcio del campo palestinese di Yarmouk, in Siria. “Ogni bambino nel campo non ha in mente altro che il calcio. Tutta la mia vita in Siria ruotava attorno al pallone”. Con l’intensificarsi del conflitto attorno a Damasco, hanno lasciato la Siria per trovare riparo in Libano, nel campo di Borj-el Barajneh alla periferia di Beirut.
Louay è un giovane palestinese-siriano che vive a Beirut da quando la guerra in Siria è arrivata a Damasco. Con i piedi è davvero bravo: non a caso è il numero 10 dell’Al Aqsa e indiscutibilmente avrebbe potuto giocare nella Premiere League Libanese. Louay ha scelto invece di giocare le proprie carte per arrivare in Europa. In una struggente intervista ci ha aperto il suo cuore e parlato dell’agghiacciante esperienza vissuta nell’aeroporto di Istanbul: “ostaggio” per 26 giorni all’interno dell’aeroporto e poi sballottato tra i cieli di Libano e Turchia, con il terrore di venire estradato in Siria.
Da un campo all’altro, da una squadra all’altra. I 3 amici si sono ritrovati insieme nei ranghi dell’Al-Aqsa, la squadra palestinese simbolo del campo di Borj-el Barajneh. Un vero e proprio laboratorio multi-etnico e multi-nazionale, dove giocano e si allenano palestinesi-libanesi, siriani, palestinesi-siriani, libanesi e… anche un italiano! Nella scorsa stagione l’Al-Aqsa è arrivata persino a giocarsi la finale della Coppa Palestinese in uno scontro epico risolto solo ai rigori. Jamal e Nassar erano i calciatori più promettenti della rosa, ma hanno dovuto riporre i loro sogni per via del passaporto: un rifugiato in Libano fatica a trovare spazio nella lega ufficiale!
Sono lontani i tumultuosi anni anni ’70, quando il calcio palestinese “parallelo” in esilio attirava migliaia di tifosi, perché lì ci giocavano i migliori calciatori del Paese. Tra di questi Jamal-al Khatib è la leggende vivente del calcio palestinese in Libano: negli anni ’70 la sua fama gli ha garantito 3 passaporti diversi per giocare in 3 diverse nazionali maggiori. Ma l’unica maglia che si sente ancora addosso è quella del Nejmeh, la “Juventus del Libano”, con cui una settimana prima dello scoppio della guerra civile libanese (1975) ha giocato con Pelé nello Sport Centre di Beirut.
Pelé con Jamal al-Khatib (il quarto da sinistra)
Ci racconta nel documentario:
“Beirut era paralizzata. C’erano più di 80.000 persone in uno stadio che ne poteva contenere la metà.” Solo pochi giorni dopo il Libano sprofonderà in una guerra civile che paralizzerà il paese per 15 anni. Il Beirut Sport Centre, nel frattempo, sarà raso al suolo dai bombardamenti israeliani e trasformato in base militare.
“Nel 1982 il Camille Chamoun Stadium fu distrutto ed occupato dalle forze militari israeliane. Tutti noi palestinesi fummo chiamati ad apparire nello stadio. Eravamo raggruppati in 7-8 file:quando fui chiamato, un soldato mascherato mi chiese perché così tante persone in fila mi salutassero.
Mi sono guardato attorno e gli ho detto:
“Vedi questo stadio? Quando venivo qui,
c’erano 60.000 persone che si alzavano per me”
Sembrò impressionato e mi chiese:
“Chi sono queste persone? Sei di Fatah?”
Gli dissi:
What is Fatah? I “JUST” play football.’
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Il Prologo
13 novembre 2017: l’Italia si gioca i Mondiali con la Svezia.
I 4 quartieri del campo di Borj el-Barajneh li riconosci per le bandiere esposte sui balconi durante i Mondiali: c’è il quartiere brasiliano, l’argentino, il tedesco e pure quello italiano.
Footballization inizia proprio da qui: con la delusione di italiani, palestinesi e siriani di fronte alla mancata qualificazione degli Azzurri.
L’unica consolazione viene dagli anziani del quartiere italiano:
“Nel 1982 l’Italia ha vinto i Mondiali, e avevamo la guerra in casa.
Nel 2006 mentre festeggiavamo sono arrivati gli aerei israeliani a bombardare Beirut.
L’estate 2018 la passeremo quantomeno al sicuro”.