A cura di Martina Ramponi
“Disons-nous et disons à nos enfants que tant qu’il restera un esclave sur la surface de la Terre, l’asservissement de cet homme est une injure permanente faite à la race humaine toute entière.” (Victor Schoecher)
Dopo un breve viaggio in traghetto dal porto di Dakar (capitale del Senegal), l’isola di Gorèe mi accoglie con le facciate delle sue case coloniali colorate di giallo, rosa, albicocca e buganvillee che sbucano da giardini meravigliosi, una piccola spiaggia con acque azzurre davanti al piccolo porticciolo e donne che portano cesti con il bucato appoggiati sopra la testa. Questa atmosfera mi riporta indietro negli anni.
Veduta frontale dell’Isola dal traghetto © Martina Ramponi
L’isoletta di Gorèe sembra adagiata sulle acque dell’oceano Atlantico, per la suggestione della sua forma sinuosa all’inizio si chiamava Bir che significa ventre fertile nel 1978 è stata dichiarata “Patrimonio dell’umanità” perché Gorèe per oltre 300 anni, fino al 1848 (anno dell’abolizione della schiavitù) è stata il punto di partenza per milioni di uomini e donne africani, che venivano strappati dalla loro terra, per essere inviati oltreoceano, a bordo di imbarcazioni portoghesi, spagnole e francesi, per lavorare nei campi di cotone, di canna da zucchero o di caffè in America del Sud e nelle isole dei Caraibi.
La tratta degli schiavi verso il Nuovo Mondo veniva praticata in tutta l’Africa Occidentale, soprattutto in Gambia, Benin, Ghana e Senegal a partire dal 1444, quando il portoghese Dinis Dias catturò i primi quattro prigionieri e li portò in schiavitù a Lagos (Nigeria). Alla cattura diretta, già nel 1450, si sostituì l’acquisto di schiavi dai mercanti arabi e dai capi tribù della Guinea. Nel 1552 il 10% della popolazione di Lisbona era composta da schiavi etiopi (attraverso la rotta araba), e neri dell’Africa occidentale. In città erano presenti circa 70 mercanti di uomini che ben presto estesero la loro attività anche ai possedimenti d’Oltremare, incrementando considerevolmente l’offerta di forza-lavoro.
In Senegal i principali punti di raccolta e smistamento degli schiavi erano St. Louis, Rufisque, Karabane e, in misura minore, l’Isola di Gorée che, per la sua posizione facilmente difendibile, nei secoli venne contesa tra le superpotenze dell’epoca. Scoperta dai portoghesi nel 1444 fu occupata dalla marina olandese nel 1588 che chiamò il luogo “Goede Reede (buona rada)”, corrotto poi in “Gorée” dai francesi che ne presero possesso nel 1677. Nel 1785 il cavaliere de Boufflers, governatore francese del Senegal, vi spostò la residenza da Saint Louis, più a nord. Dopo un breve periodo di dominazione inglese, l’isola fu resa alla Francia nel 1817.
I galeoni portoghesi, spagnoli ed olandesi, nei tre secoli in cui si è andato sviluppando lo schiavismo, catturarono circa 10 milioni di Africani che vennero inviati nelle Americhe e nei Caraibi con circa 40.000 viaggi nell’oceano. Durante la navigazione i galeoni affondati furono 2160 e 600 mila i morti annegati o divorati dagli squali. In ogni caso, durante le traversate, si calcola che un prigioniero su cinque moriva per gli stenti, malattie e la fatica. I dati statistici non sono completi, perché mancano numeri certi sull’intera popolazione africana resa schiava nel corso dei tre secoli. Gorée fu usata per gli imbarchi fino al 1848, quando, cessato per legge il commercio degli schiavi, perse di interesse strategico.
Statua simbolo della liberazione © Martina Ramponi
Dopo aver passeggiato per qualche via al centro dell’isola troviamo una statua simbolo degli orrori avvenuti nei secoli sotto la statua è riportata una targa su cui vi è scritto “Colui che vi dice che l’Isola di Gorèe è un isola, vi ha mentito. Questa isola non è un’isola è il continente dello spirito“ (Jean-Louis Roy scrittore e poeta Canadese).
Uno dei colorati vicoli conduce direttamente alla “Maison des Esclaves” ovvero la Casa Degli Schiavi, una vecchia residenza privata dove gli schiavi venivano tenuti prigionieri, in attesa di essere venduti. Costruita nel 1780 la casa era di proprietà della “signare” Anne Pépin, maîtresse del governatore de Boufflers.
“Signares” (nome derivato dal portoghese “senhoras”) venivano chiamate le donne locali che, specialmente durante il periodo della dominazione francese, si univano in matrimonio “à la mode du pays” con gli europei arrivati a Gorée, intanto che essi rimanevano sull’isola.
I figli, meticci, e le stesse “signares” ben presto iniziarono a godere di un notevole prestigio sociale nella colonia.
Spesso infatti i “mariti” francesi, tornati in patria dalle famiglie ufficiali, lasciavano tutte le loro proprietà, incluse le case di detenzione e di commercio degli schiavi, alle loro “signares”, che di fatto diventavano a loro volta ricche commercianti.
Al piano superiore della “Maison des Esclaves”, a cui si accede da un’elegante doppia scalinata, si trovano gli ampi appartamenti della “signare” Anne Pépin e della sua famiglia.
Veduta frontale dell’ingresso della “Maison des Esclaves”. Tra le personalità che hanno visitato la “Casa degli Schiavi” ci sono Papa Giovanni Paolo II e Barack Obama. Il piano superiore ospita un ricco museo di testimonianze storiche e reperti ©Martina Ramponi
Proprio questi due grandi scaloni a ferro di cavallo, posti all’ingresso della residenza, erano il punto in cui veniva contrattata la vendita di queste persone innocenti.
Solo visitando le prigioni del pianterreno si percepiscono il dolore e la paura provati dalle centinaia di migliaia di persone transitate dalle celle buie e piccolissime dove uomini, donne e bambini, incatenati e divisi per sesso ed età, rimanevano in attesa di conoscere la loro sorte.
Cella: gli schiavi potevano restare mesi rinchiusi qui prima della partenza verso le Americhe © Martina Ramponi
Famiglie smembrate, giovani strappati alle loro case e al loro futuro. Le stanze erano divise per genere ed età, gli uomini erano incatenate l’una con l’altra ma non parlavano la stessa lingua, inoltre avevano diritto ad un solo pasto al giorno e ad uscire dalla prigione solo una volta al giorno per espletare i loro bisogni fisici. Date le scarse condizioni igieniche in una cella della dimensione di 50 metri quadrati erano stipate anche 80 persone costrette a stare incatenate schiena contro schiena per occupare meno spazio, le malattie e le epidemie scoppiate furono molte, coloro che erano malati e più deboli, venivano gettati vivi nelle acque sottostanti, sempre infestate dagli squali in attesa di nuove prede, questa pratica avveniva una volta alla settimana e veniva controllata con piacere dai coloni che vedevano la scena dal piano superiore dove vivevano ignorando ciò che avveniva ai piani inferiori.
Importante era mantenere “la merce “in buono stato per questo alle prime avvisaglie di debolezza o malattia venivi eliminato.
Le donne erano stipate in una cella a parte che ha un accesso direttamente collegato al piano superiore questo perché le più belle dovevano rendere dei “servizi” ai coloni che spesso le mettevano in cinta.
Gli uomini e i bambini più forti – apprezzatissimi erano i Mandinghi – e le donne e le bambine più belle, dovevano oltrepassare la “Porta del Non Ritorno” per essere caricati a forza sulle navi negriere che li avrebbero trasportati versouna destinazione ignota: le Americhe.
“Porta del Non Ritorno” © Martina Ramponi
La “Porta del Non Ritorno” è alla fine di un lungo corridoio, stretto e buio, che si affaccia direttamente sul mare. Percorrerlo, cercando di immedesimarsi con le vittime di questo orrore (cosa peraltro impossibile) fa venire i brividi. I ribelli, i recalcitranti, i più deboli, venivano gettati vivi nelle acque sottostanti, sempre infestate dagli squali in attesa di nuove prede. Il simbolo più forte, significativo e triste di questa residenza è rappresentato dalla “porta del non ritorno”, che si apre sull’ Oceano Atlantico, e che conduceva gli schiavi africani direttamente a bordo delle navi per essere poi trasportati oltreoceano, senza avere più la possibilità di fare ritorno in patria.
Non esistono dati univoci sul numero di schiavi passati effettivamente da questa porta. Si parla di un numero che va da diversi milioni a decine di migliaia. Si può comunque parlare di circa 20 milioni di uomini, donne e bambini deportati nelle Americhe e nei Caraibi e, di dodici milioni di sopravvissuti al viaggio e alle malattie, derivate dall’acclimatazione geografica o contratte nel primo anno di permanenza nei campi di raccolta del cotone e dello zucchero.
Di certo c’è un detto secondo il quale gli Stati Uniti sarebbero nati proprio sull’isola di Gorèe, perché è impossibile pensare alla storia americana senza gli schiavi. Dopo il congresso di Vienna del 1815 ed il trattato di Aix-la-Chapelle del 1818, la tratta degli schiavi divenne legale “solamente” a bordo delle navi portoghesi e a sud dell’equatore. Con l’interdizione totale del traffico sulla costa ovest dell’Africa, i negrieri si spostarono ad est, a Zanzibar che, fino alla fine dell’ Ottocento, divenne il nuovo centro mondiale di commercio degli schiavi.
Oggi l’Isola di Gorèe è un’isola della memoria, simbolo della tratta degli schiavi neri perché questa tragedia non vada dimenticata ma venga sempre ricordata.
Mentre passeggio tre le mura di questo luogo terribile, inevitabilmente mi tornano in mente i racconti di molti ragazzi migranti che prima di salpare per l’Europa hanno vissuto per mesi in campi di prigionia in Libia. Le condizioni di controllo e di sopruso che sono costretti a subire i migranti oggi non sono tanto distanti da quello che accadeva qui a Gorèe e mi viene da chiedermi se vi è un modo possibile per evitare che la storia si ripeta.
Oggi possiamo fare qualcosa per fermare tutto questo?
Migranti in Libia (Fonte: Google Immagini – migranti-libia.jpg_250962432)
Per approfondire:
Le catene di Gorèe, dal Senegal all’America senza ritorno, Ndongo Diop e Giuseppe Cecconi, edizioni Giovane Africa Edizioni.