A cura di Laura Brunori
Passando davanti al centro diurno del mio paese con un amico indiano mi è sorto spontaneo chiedergli di raccontarmi della salute mentale in India: un fiume in piena di domande al quale sono susseguite, ahimè, poche risposte.
Tutto quello che sono riuscita ad ottenere è stato che in India i malati psichiatrici stanno in strutture situate tra i monti circondate da foreste.
Nella migliore disposizione d’animo verso la cultura orientale, sentimento dovuto all’ appena ultimata lettura de “L’arte della felicità” di Tenzin Gyatso (altrimenti noto come Dalai Lama), mi sono prefigurata un ambiente idilliaco a suon di uccellini mattinieri che svegliano i pazienti, sedute di meditazione all’ombra di alberi secolari, passeggiate terapeutiche scandite dai profumi del bosco.
In un secondo tempo, presa da un impetuoso desiderio falsificazionista, mi sono sentita molto:
1-Ignorante. L’India e il Tibet non c’entrano granché: la religione praticata non è nemmeno la stessa, con una decisa prevalenza di induisti nella prima e una schiacciante maggioranza di buddisti nella seconda;
2-Ingenua. L’India è una nazione che sta vivendo una forte crescita economica, ma il miglioramento della qualità della vita delle persone con disturbi mentali non è di certo ai primi posti nella scala di priorità statali: nel 2016, meno dell’1% del bilancio sanitario nazionale era assegnato alla salute mentale.
Sembra infatti che in India la domanda di servizi che si occupano di salute mentale sia esponenzialmente superiore all’offerta, la quale, come emerge da diversi studi sul tema, si rivela spesso carente, inadeguata, foriera di effetti iatrogeni (=conseguente ai trattamenti, per farla breve: effetti collaterali) quando non intenzionalmente lesiva dei diritti della persona presa in carico.
Biancaneve nella foresta ©Walt Disney
Mi spiego meglio.
Circa 70 milioni di persone in India soffrono di una qualche forma di malattia mentale (tra cui 4 milioni affetti da schizofrenia) e la maggior parte non ha accesso a cure e trattamenti, o perlomeno non entra nei sistemi di cura pensati dallo stato.
Questo vale, come si può facilmente immaginare, soprattutto per le popolazioni che abitano contesti rurali. E per le donne, che nelle liste d’attesa si vedono sistematicamente sorpassare dagli uomini. Sono quindi le famiglie che finiscono per farsi carico, talvolta in completa solitudine sociale ed economica, del malato e delle sue esigenze.
In India ci sono 43 ospedali psichiatrici governativi, per un totale di 20000 posti letto, il ché, forse, non è un male. Nel 2014, Human Rights Watch ha intervistato circa 200 tra pazienti, famigliari, operatori sanitari e forze dell’ordine, ed ha riportato che le persone ricoverate nei manicomi indiani, soventemente in modo coatto, vivono in condizioni terribili.
Nonostante l’India abbia ratificato nel 2007 la Convenzione Onu che abolisce la detenzione forzata nei manicomi, il rapporto di HRW parla di strutture, sovraffollate, dalle condizioni igieniche altamente discutibili, infestate dai pidocchi e con un numero ridicolo di gabinetti funzionanti. Ancora una volta, la sorte peggiore tocca alle donne (che in India sono una categoria già particolarmente svantaggiata): una volta messo piede in questi istituti, vivono isolate dal resto del mondo, sottoposte a trattamenti come l’elettroshock contro la loro volontà e abusate verbalmente, fisicamente, talora anche sessualmente.
Associazione femminile indiana in festa (Copyright Demotex – ©Rajeev R Singh 8/3/13)
A questo punto, nella mia testa, gli uccellini delle foreste indiane hanno smesso di cantare, anzi, sono precipitati stecchiti.
Prevedo una seduta skype col mio amico per chiedere delle spiegazioni e i danni morali per avermi illuso che in India fosse previsto un sistema di cura lungimirante, che mettesse al centro la persona, le sue risorse e quelle dell’ambiente in cui vive.
Forse però non è tutto qui. Cerco informazioni su quell’enorme fetta di popolazione che non può essere inclusa nel rapporto dell’HRW, perché un ospedale psichiatrico indiano non l’ha mai visto, nemmeno da lontano.
Trovo tracce di medicina tradizionale che sembrano funzionare. Permanenze di qualche mese nel tempio sacro di Muthuswamy nel sud dell’India che, a detta dei pazienti e dei loro “care-givers”, riescono ad alleviare la sofferenza della malattia mentale, anche in presenza di gravi sintomi psicotici. Inserendo in Google Maps il nome impronunciabile di quel villaggio scorgo una grossa macchia verde nelle vicinanze: non sarà mica la foresta di cui parlava il mio amico? Possibile. Certo è che si parla solo di una trentina di persone ospitate nel tempio…
Vengo a conoscenza dell’esistenza di molte ONG, progetti di volontariato e associazioni che gravitano attorno ai bisogni delle persone con disagio mentale, nel tentativo di sopperire all’inefficiente e insufficiente sistema sanitario nazionale:
… forse è proprio questo che serve: un’azione politica, un NO.
Manicomio femminile in Italia © Carla Cerati
Un NO, che non è una rinuncia ad agire, ma un rifiuto del sistema vigente. Questa frase mi fa venire in mente qualcuno…Basaglia!
Alla fine chiedo i danni morali anche a me stessa, perché nel mio continuo processo autocritico di vedere l’erba del vicino sempre più verde (e “del lontano”, pure), mi sono dimenticata che l’Italia è una delle prime nazioni che, con la legge Orsini del ’78 (la legge Basaglia, per intenderci), ha voluto e ottenuto la chiusura di tutti i manicomi.
Anche nell’Italia pre-Basaglia le strutture psichiatriche si candidavano a pieno titolo come location di film horror: persone stipate a decine in stanze anguste, costrette a camminare tra le loro feci, sottoposte quotidianamente a contenzione e a trattamenti permanentemente invalidanti.
Sarei per la seconda volta ingenua se pensassi che adesso sia tutto rose e fiori, ma se possiamo contare su una rete più o meno capillare e gratuita di servizi dedicati alla cura (e non alla detenzione) della persona con sofferenza psichica, è perché siamo passati da questa rivoluzione, da questo grande NO.
Forse, oltre alla pizza e al curry, sarebbe il caso di scambiarci anche qualcos’altro di molto buono.
Laura Brunori, da sempre affascinata dal genere umano (e animale) e appassionata di recitazione, lavora con disabilità e infanzia da diversi anni. Ultimamente, si è avvicinata professionalmente all’ intercultura e si accinge a diventare psicologa di comunità.