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Appunti di Cooperazione Internazionale

Immersi nella plastica

La plastica da icona del mondo e dell’economia moderna a minaccia per il futuro dei nostri mari e dell’intero ecosistema.

A cura di Ramponi Martina

In cinquant’anni la produzione di plastica è aumentata di venti volte. Si stima che, continuando così, nel 2050 il 20 per cento dell’intera produzione mondiale di petrolio servirà solo per la plastica. La maggiore produttrice è la Cina, seguita dall’Europa.

La domanda di plastica del nostro continente nel 2015 è stata di circa 50 milioni di tonnellate: di questi, il 70  per cento è stato richiesto da sei Stati (Germania, Italia, Francia, Spagna, Uk, Polonia). L’Italia, secondo l’ultimo rapporto della Beverage Marketing Corporation, è il primo Paese europeo per consumo pro capite di acqua in bottiglia (di plastica): con i suoi 178 litri l’anno per abitante, sta dietro solo a Messico e Thailandia. La maggior parte della plastica usata in Europa, circa il 40 per cento, la troviamo nel packaging (scatole e involucri) soprattutto imballaggi di cibi, bevande e vestiti. Di questi, però, meno del 15 per cento viene riciclato e la percentuale si abbassa drasticamente se consideriamo la plastica in generale (si parla del 5%). Quasi un terzo degli oggetti di plastica prodotti a livello globale, in pratica, viene abbandonato nell’ambiente.

Otto milioni di tonnellate di plastica vengono scaricate negli oceani ogni anno, plastica che altera il delicato equilibrio dell’ecosistema marino e che mette in grave pericolo la salute di tutti noi. A questo proposito l’Europa ha dichiarato guerra alla plastica: sono state infatti annunciate nuove misure restrittive per la produzione della plastica e uno degli obiettivi fondamentali sarà quello di aumentare la domanda di plastiche riciclate e assicurare che entro il 2030 tutti gli imballaggi siano riciclabili in modo conveniente ed economico.

Anche in Italia si sta agendo in tal senso. Dal primo gennaio 2018 è infatti entrata in vigore una legge, approvata lo scorso agosto, che porta delle novità nell’uso dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri nei supermercati: per intenderci, sono quelli comunemente utilizzati per imbustare frutta, verdura, carne e salumi, che – tra le altre cose – sono tra i principali responsabili dell’inquinamento dei mari. La norma prevede l’introduzione di nuovi sacchetti biodegradabili da far pagare ai consumatori, al pari delle normali buste della spesa. Il costo dei sacchetti potrà variare da un negozio all’altro, ma dovrebbe aggirarsi tra 1 e 5 centesimi ciascuno. I sacchetti, come già quelli biodegradabili venduti alle casse dei supermercati, potranno essere usati per contenere i rifiuti organici. I nuovi sacchetti dovranno essere composti da materiali biodegradabili e compostabili con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40 per cento, che diventerà 50 per cento dal primo gennaio 2020 e 60 per cento dal primo gennaio 2021. Per chi non rispetta la nuova legge si prevedono sanzioni che vanno dai 2.500 ai 25 mila euro.

Se nel dopo guerra la plastica irrompe nel quotidiano e nell’immaginario di milioni di persone, nelle cucine, nei salotti, permettendo a masse sempre più vaste di accedere a consumi prima riservati a pochi privilegiati, semplificando un’infinità di gesti quotidiani, colorando le case, rivoluzionando abitudini consolidate da secoli e contribuendo a creare lo “stile di vita moderno”; oggi la plastica è un problema di cui farsi carico seriamente. Provate a  focalizzare la vostra attenzione sulla quantità di plastica presente nelle nostre  case; vi renderete conto facilmente  di essere invasi dalla plastica e che le alternative sono ben poche. Se nelle nostre case l’effetto può sembrarci minimo per rendervi conto della quantità di plastica che ogni giorno ci circonda vi basterà fare un giro in un supermercato, lì verrete di sicuro presi da un senso di impotenza e sconforto di fronte all’immensa quantità di plastica e alla quasi totale assenza di alternative a questo materiale in ogni reparto dalla cosmesi agli alimentari. Siamo così assuefatti dall’uso di plastica praticamente ovunque che non lo vediamo come un problema, ma se la plastica prodotto è molta di più di quella che riusciamo a smaltire allora si che dovremmo preoccuparcene.

Pensare che 8 milioni di tonnellate della plastica che produciamo finiscono in mare ogni anno, è come se, ogni minuto per 365 giorni, un camion della spazzatura riversasse tutto il suo contenuto in acqua. Senza sosta, sconcertante e allarmante.                                    Inoltre se non ci sarà un cambio di rotta, con una diminuzione della produzione e una maggiore attenzione allo smaltimento, nel 2050 i camion al minuto diventerebbero quattro.In quella data, in termini di peso, gli oceani potrebbero contenere più bottigliette che pesci.

Tra le acque più inquinate ci sono quelle del Mediterraneo. Il problema, infatti, non riguarda solo la spazzatura di grandi dimensioni (che spesso forma delle vere e proprie isole in mezzo all’acqua), ma anche i rifiuti che non riusciamo a vedere: la concentrazione delle microplastiche a largo delle nostre coste è persino maggiore di quella del Pacifico (che ospita la Great Pacific garbage patch). A farne le spese, ovunque, sono gli esseri viventi. Se l’immondizia danneggia la flora e provoca il soffocamento e la menomazione degli animali marini, le particelle vengono spesso ingerite da organismi che poi finiscono nei nostri piatti. Con effetti che, anche se gli studi in merito sono ancora agli inizi, sembrano dannosi anche per l’uomo.

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Pesci morti a causa di elevate quantità di plastica nello stomaco.

Viene da chiedersi che cosa possiamo fare per migliorare la situazione?

Per cercare di arginare un problema già grave bisogna agire subito. Le strade sono due: da una parte bisognerebbe diminuire il consumo (e quindi la produzione) di plastica, dall’altra c’è la necessità di smaltirla nel modo corretto. In entrambe le direzioni sono già state fatte delle mosse. Alcune città, come San Francisco, Amburgo e Montreal, hanno messo al bando le bottiglie di plastica. Altre hanno avviato campagne per sensibilizzare (ed educare) più gente possibile su come differenziare. Ma per raggiungere risultati concreti c’è bisogno non di azioni isolate, ma della collaborazione di istituzioni, cittadini e aziende. La plastica, ad esempio, non dovrebbe finire nelle discariche: una parte dovrebbe essere riciclata e un’altra usata per ricavare energia. Alcuni Paesi sono sulla strada giusta. L’Italia può migliorare. Legambiente e altre associazioni hanno lanciato la proposta di arrivare a zero plastica in discarica entro il 2020. La cosa più importante, intanto, è che la plastica non venga mai abbandonata per strada o nei corsi d’acqua. Ognuno di noi dovrebbe impegnarsi a buttarla nei cassonetti giusti.  Sensibilizzare informarsi e cercare di utilizzare solo plastica reciclabile potrebbero migliorare la situazione,il problema potrà risolversi solo con un moto di coscenze comune e una presa di coscienza del problema.

Il Ruanda un esempio virtuoso 

Dal 2008 uno degli obiettivi del Ruanda è quello di mantenere un ambiente pulito e sano. Per raggiungere l’obiettivo è stato necessario bandire i sacchetti di plastica non biodegradabili e i materiali di imballaggio. Così, ad oggi, i ruandesi utilizzano solo borse realizzate con materiali biodegradabili tra cui carta, stoffa, foglie di banano e papiri. Questa operazione ha fatto la differenza. Il divieto dei sacchetti di plastica ha fatto crescere la reputazione del paese, rendendolo uno dei più puliti in Africa. Nel 2008, la capitale del Ruanda, Kigali, è stata dichiarata una delle città più pulite di tutto il continente africano, secondo UN Habitat. Bandire i sacchetti in plastica ha anche creato delle opportunità per gli imprenditori locali che hanno investito in materiali di imballaggio (panni, carte, foglie di banano e papiri) alternativi oltre che ha consentito a livello sociale e politico l’insinuarsi di nuove politiche ambientali.

Per concludere rimando all’apertura dell’articolo dove trovate non a caso il trailer del documentario “A plastic Ocean”che consiglio di vedere pe approfondire il tema.
La troupe di giornalisti che ha realizzato il documentario proviene in larga parte dalle BBC ed è capitanata da Jo Ruxton, specializzata nei documentari naturalistici e nelle riprese sottomarine, produttrice anche di “The Blue Planet”.
Dal documentario nasce una  rete non profit “Plastic Oceans”, sostenuta a livello globale da numerose organizzazioni ambientaliste, tra cui il WWF, Greenpeace, Blue Ocean, Sea Shepherd e molte altre, che sta realizzando una imponente campagna di comunicazione per documentare la “catastrofe globale dell’inquinamento provocato dalla plastica”, distribuendo il film nel mondo e accompagnandolo con azioni di divulgazione ed educazione. Se dopo la visione di questo documentario anche voi vi sentite di dover fare qualcosa per cambiare le cose  iscrivetevi anche voi alla PLASTIC OCEANS FOUNDATION  un cambiamento è possibile con la partecipazione e la consapevolezza di tutti.

 

Link:

http://www.plasticoceans.org
http://plasticbusters.unisi.it/

 

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Questa voce è stata pubblicata il 2 febbraio 2018 da in Ambiente, Movimenti culturali, Sostenibilità con tag , , .
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