A cura di Davide Garlini
Uno dei più gravi errori che l’essere umano tende solitamente a commettere è il ritenere che, nel momento in cui una guerra finisce in un determinate territorio, contemporaneamente termini qualsiasi forma di problema o ingiustizia. La fine, ufficiale o meno, di un conflitto è come una sorta di autorizzazione a dimenticarsi per sempre di un luogo che fino al giorno prima era sulla bocca di tutti.
Nulla di più sbagliato! Nulla può essere più lontano dalla realtà: le ingiustizie non sono finite in Italia dopo la caduta del regime fascista o in Germania una volta che il corpo di Hitler fu dato alle fiamme; nell’ex Jogoslavia gli abusi non terminarono con la perdita di potere del sanguinario Milosevic, cosi come molti cadaveri continuano a essere riscoperti nei muri del sud America ogni volta che una casa viene ristrutturata o abbattuta. Paradossalmente, la storia ci insegna che i momenti immediatamente successivi al termine di un conflitto, civile o su larga scala che sia, sono i più delicati in assoluto. Sono i momenti delle vendette, del tutto è lecito, dello stomaco che prevale sull’intelletto. Sono i momenti in cui la differenza tra chi sta dalla parte giusta e chi sta dalla parte sbagliata – sempre che una distinzione così netta sia mai possibile – diventa meno chiara, o addirittura si confonde.
In queste settimane, in una parte del mondo costantemente sotto lo sguardo attento dei media, questo pericolo si sta nuovamente verificando. Oggi vorrei quindi provare a raccontare del trattamento riservato ai combattenti dello Stato Islamico e alle loro famiglie, caduti prigionieri dopo la liberazione dei territori precedentemente occupati dal califfato.
Già immagino la reazione di molti di voi: “non si metterà a difendere i jihadisti adesso???” No! Assolutamente no! Datemi una possibilità!
Secondo quanto riportato recentemente dai principali media internazionali, sarebbero oltre 1300 tra donne e bambini, legati ai combattenti Isis, ad essere de facto detenuti dalle autorità irachene, per lo più in un campo per sfollati nel nord del paese (fonte: Niccolo’ Tallamanca).
Gli imprigionamenti sarebbero iniziati verso la fine dell’estate, nel corso delle campagne militari che sarebbero poi sfociate nella liberazione di Mosul – vera e propria roccaforte dello Stato Islamico – da parte delle forze curde sostenute dalla coalizione internazionale. Stando a vari funzionari del governo locale, queste persone verrebbero da circa 14 paesi diversi e sarebbero connessi a membri di Daesh in modi molto discutibili e raramente chiari e netti. Ancora meno chiara è però la sorte e il trattamento che le autorità intendono riservare a queste persone, al momento sotto chiave in un’area da molti paragonata logisticamente a un campo profughi, da cui pero’ – per ovvi motivi – non hanno il diritto di uscire.
Il paradosso della situazione sarebbe proprio che gli attuali detenuti, in un certo qual modo, potrebbero addirittura ritenersi i più fortunati, in quanto caduti sotto il controllo e la detenzione soprattutto dei Peshmerga e delle forze di sicurezza del Kurdistan, piuttosto che nelle mani delle milizie Shiite o anche peggio. Quella che ormai è da tutti ritenuta una definitiva sconfitta, per lo meno sul piano militare, di Daesh è infatti il frutto di operazioni congiunte di varie entità politico-militari e religiose molto diverse tra loro, le quali hanno in realtà ben poco in comune e, fra queste poche cose, di certo non rientra un approccio condiviso al diritto internazionale e al trattamento di presunti prigionieri di guerra. Diciamo quindi che la situazione per questi prigionieri, per i quali risulta ovviamente difficile suscitare simpatie di alcun genere, risulta incerta o – nel caso di certezza si tratti, sarebbe una certezza di tortura e morte. Si tratta quindi di un vero e proprio caso – un colpo di fortuna se così vogliamo metterla – da quale fra tante diverse strutture il determinato individuo o famiglia viene preso prigioniero, con conseguenti trattamenti. Le forze di sicurezza Peshmerga risultano essere tra le più disciplinate e affidabili di tutta la coalizione (coalizione, ricordiamo nuovamente, composta da elementi assai eterogenei, uniti dallo scopo comune della lotta all’Isis, ma dai valori e obiettivi di più larga scala assai diversi per non dire opposti).
Uno dei rischi principali in questa fase assai caotica è quindi paragonabile a quanto avviene praticamente in qualsiasi contesto di guerra al momento della riconquista di un dato territorio: cosi come nel secondo dopoguerra si finiva spesso ammazzati per aver avuto un lontano cugino tesserato fascista, il rischio è che ora molte famiglie di Mosul siano trucidate per il semplice crimine di essere sopravvissute a Daesh. Per analizzare la questione da un punto di vista leggermente più giuridico, l’errore starebbe nel non considerare più chi ha fatto cosa, ma chi sta da quale parte, e da qui procedere a punizioni di vario genere. Tanto per cambiare quindi, il vecchio e acciaccato principio base del diritto internazionale stando al quale le regole si applicano allo stesso modo per tutti, sembrerebbe star nuovamente finendo nel dimenticatoio per lasciar spazio a vendette di stomaco che rendono il confine tra bene e male, tra vittima e carnefice sempre piu sfumato.
Nel diritto internazionale si dice che appartenenza non porta accountability, ovvero un giudizio equo è un giudizio su ciò che fai in quanto individuo singolo. Risulta ovvio che se qualcuno si ribella al proprio Stato questi sarà poi giudicato dal Paese stesso in sede processuale in base alle leggi interne, ma da un punto di vista internazionale ciò in sé non rappresenta un crimine in quanto tale. Anzi, secondo il Protocollo Aggiuntivo del 77 alla Convenzione di Givenra vi è obbligo di perseguire e reprimere crimini contro il diritto internazionale (quali crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra) ma da un punto di vista opposto, processando ed eventualmente perseguendo il singolo individuo in base alle sue azioni e non al colore della sua divisa. Al contrario, sempre stando al diritto internazionale, per quanto concerne le proprie appartenenze politico-militari in quanto tali, vi è addirittura l’obbligo contrario, ovvero un incoraggiamento a una più ampia possibile amnistia. Ciò dovrebbe, a maggior ragione, essere applicato a chi nemmeno ha fatto parte di un gruppo ma risulta imparentato, magari anche con matrimoni forzati o comunque senza altra scelta o alternativa. Per farla breve: che colpa ha una dodicenne sposata a forza con un membro dell’Isis per essere detenuta indefinitamente?
Il punire l’appartenenza anziché punire gli atti è un’attitudine molto dannosa per il futuro della parte di mondo di cui stiamo raccontando in queste righe. Con questo sistema di cernita esiste infatti la concreta possibilità che le vere vittime non abbiano mai giustizia e i veri carnefici – solitamente molto ricchi e ramificati e in grado spesso di pagarsi una via d’uscita – non siano mai puniti.
Chiudo affermando una mia convinzione netta: la necessità di ricostruire una comunità, una società e una vita condivisa basandosi sulle solide fondamenta della certezza dei fatti, sulle giuste punizioni al giusto colpevole alla luce di elementi accertati è essenziale per qualsiasi paese che esca o tenti di uscire da anni di conflitto. Le nazioni che non lo fanno – e ritengo che anche l’Italia in questo senso abbia ancora un pegno da pagare alla propria storia – non ripartono mai completamente. L’odio non lascerà le case e i cuori, la sfiducia e la rabbia continueranno a scorrere per le strade e nelle vene e la memoria sarà uno strumento alla mercé di chi è nella posizione di poterla usare a proprio vantaggio.
Sempre argomenti interessanti.
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