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Appunti di Cooperazione Internazionale

“Terra Inquieta”. Immagini migranti in mostra a Milano

A cura di Bianca Trevisan, Giuseppe Previtali e Stefano Fogliata (alias “gli amici del dottorato”).

Uno spazio politico  alternativo 

Ripercorrere con la memoria gli eventi che hanno accompagnato le migrazioni contemporanee è un esercizio utile per ritrovare le immagini che ce le hanno mostrate. Fotografie e video che si assomigliano un po’ tutti, pur nella loro drammaticità di episodi singolari. Cadaveri disposti in sacchi anonimi ordinatamente disposti per la tardiva contrizione dell’establishment politico oppure – quando il viaggio va a buon fine – sbarchi e spostamenti di masse umane dalle dimensioni bibliche.

Se c’è una cosa che accomuna queste interpretazioni visive è forse proprio la rappresentazione di chi migra come massa, onda anomala della demografia, gruppo indistinto che invade, aggredisce, destabilizza.

Un’interpretazione, appunto e per questo decisamente non innocente.

Essa ci racconta più le nostre paure che le reali motivazioni del viaggio per mare di chi fugge: silenziando la voce di quei volti che chiedono aiuto non facciamo altro che dar spazio al nostro terrore.

A fianco – più spesso risolutamente contro- questa narrazione si sono schierate negli anni altre immagini alternative che illuminano il cono d’ombra lasciato dall’informazione mainstream. In questo processo le arti visive hanno avuto un ruolo di primo piano, producendo opere che si posizionano con coraggio nello spazio politico alternativo a quello dominante.

I modi in cui lo fanno sono diversi e hanno strettamente a che fare anche con il vissuto personale degli artisti: spesso è proprio chi ha vissuto o ancora vive “da migrante” a divenire interprete di questo fondamentale processo di messa in discussione. Attraverso la restituzione delle storie di chi migra, interpretare quel viaggio come un’invasione diviene uno sforzo ingiustificato, oltre che immorale.

Oppure, ancora, lo spazio della memoria (personale e collettiva), che apre la questione migratoria a quella della ricerca di una propria posizione, di un’identità, di una vita che conti e che sia degna di essere vissuta. Ed è nelle pieghe lasciate dal racconto dominante che queste altre storie, racconti interstiziali di identità negate, trovano un fondamentale spazio di espressione. A noi, invece, resta l’imperativo di prestar loro ascolto.

 

La mostra

In questo senso, di particolare interesse risulta l’ampia collettiva curata da Massimiliano Gioni attualmente in corso (fino al 20 agosto) alla Triennale di Milano, promossa da Fondazione Nicola Trussardi e Fondazione Triennale di Milano. “La terra inquieta” – titolo preso a prestito da un’opera lirica dello scrittore di origini caraibiche Édouard Glissant-  comprende opere di più di sessantacinque artisti, provenienti da paesi tra cui Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia. Il tema è appunto quello cocente delle migrazioni e della “crisi dei rifugiati” rielaborata attraverso la prospettiva dell’arte contemporanea e della cultura visiva. L’ingresso alla mostra è indicato dall’installazione di Šejla Kameric, EU / Others (2000) [1]: una soglia, un limen che induce lo spettatore a sentirsi anch’esso migrante nelle storie, nei territori di un’alterità racchiusa in “others”, parola volutamente generica e indistinta.

È subito una vertigine: chi sono loro? Chi siamo noi? Ad amplificare l’incertezza è la grande installazione nella prima sala, Territories (1995-2011) dell’artista bulgaro Pravdoliub Ivanov, dove le dieci bandiere dei dieci stati fondatori dell’Unione Europea sono irriconoscibili perché ricoperte di fango.

PRAVDOLIUB IVANOV Territories, 1995-2011 Materiali vari e sopra alla porta una parte dell’installazione ŠEJLA KAMERIC EU / Others, 2000 2 cartelli lightbox 35 cm x 150 cm x 30 cm cad. Installation view, foto degli autori dell’articolo

Se la narrazione dominante veicolata dai principali mezzi di comunicazione, si diceva, vuole i rifugiati come massa, la mostra propone un racconto che si snoda attorno sovrapposizioni e richiami tra luoghi reali e immaginari, vissuti personali e collettivi. Lo spettatore inizia così ben presto a dubitare. Ed è proprio questa la possibilità trasformativa dell’arte: far vedere ciò che prima semplicemente era guardato.

Contro la voracità, il sensazionalismo e la spettacolarità a cui siamo abituati – è quasi un obbligo ridurre tutto a quella cosa lì: infiamma il giusto, e poi ci lascia stare – è riabilitato ciò che si fa scoprire a poco a poco. Sono le storie urgenti e banali, piccole e grandi, soggettive e al tempo stesso corali come sa essere il dolore umano di tutti, di chi va e di chi resta. Terra Inquieta ci ricorda che l’arte, che lavora con le immagini – le stesse immagini che ci bombardano senza sosta attraverso i mass media  e i social network e che, volenti o no, forgiano la nostra percezione del mondo – ha la possibilità di conferire nuova dignità alle immagini stesse. Gioni cita appunto T.J. Demos che parla di “immagini migranti”, che nella loro instabilità permettono una rappresentazione alternative alle realtà imposte e alle narrazioni a senso unico.

Abbiamo deciso di focalizzarci su alcune opere, tra le molte in mostra, che ci sono parse particolarmente efficaci sulla questione.

Attraverso queste forme visuali, proviamo a ricostruire una traiettoria ondeggiante sospesa tra lo spazio ed il tempo. Ci imbarchiamo in questo modo in un percorso ambiziosa che provi a tirare le fila di un viaggio sospeso che dalle strade di Damasco si propaga al mondo in una sorta di vortice.

Ripartiamo appunto dalle città siriane prima della Rivoluzione, per provare ad andare oltre il dibattito contemporaneo -sterilizzato e al limite del manicheo- di cui si nutrono media e piranha:

” Con l’ISIS o con Assad?”.

HRAIR SARKISSIAN Execution Squares, 2008 Stampa a getto d’inchiostro d’archivio / Archival inkjet print 60.5 x 77.4 cm Courtesy Kalfayan Galleries, Athens – Thessalonik

– Hrair Sarkissian, Execution Squares, 2008

Spettrali sono le fotografie del siriano Hrair Sarkissian, che oggi vive a Londra. Le fotografie di Execution Squares (2008) sono state scattate in Siria, nelle città di Aleppo, Damasco e Laodicea, dove, prima dell’inizio del conflitto civile, il governo di al-Asad eseguiva esecuzioni pubbliche all’alba. La serie è un tentativo di affrontare e superare il trauma. La figura umana è totalmente assente e ancora una volta è la sobrietà della rappresentazione a veicolare il messaggio.

Restiamo in un ambiente urbano, spostandoci però di poco più di un centinaio di chilometri verso ovest fino al litorale libanese del Mediterraneo. Da Damasco a Beirut, dalla guerra siriana di oggi a quella civile libanese che ha insanguinato la regione tra il 1975  e il 1990. Un passaggio di consegna sanguinario su scala regionale. Prima del 2011 ci volevano due ore di macchina per raggiungere Damasco da Beirut: ora, a causa di decine di checkpoint lungo la rotta, almeno il doppio.

– Rayyane Tabet, Architecture Lessons, 2012

RAYYANE TABET Architecture Lessons, 2013, from the series Five Distant Memories: The Suitcase, The Room, The Toys, The Boat and Maradona (2006-2016) Calchi in cemento di un set di giocattoli di legno e 27 giocattoli di legno Dimensioni variabili Installation view, Photo Sergei Illin

I ricordi della guerra in Libano sono al centro anche dell’opera di Rayyane Tabet. Esperienza vissuta nella prima infanzia, eppure così lacerantea livello personale e nazionale. L’installazione Architecture Lessons (2012) è composta dalle costruzioni di mattoncini usate dall’artista bambino, qui cementificate. Il risultato sembra un plastico, visione aerea di una città in bilico tra modernismo e macerie, capace di rinascere ma non dimentica del dolore.

Non solo passaggi di consegna a tinte violente. Esiste una narrazione di reciproche ospitalità su scala collettiva che vale la pena riportare alla luce. Il percorso di vita dell’artista libanese Monira Al Sohl ricalca quello di migliaia di libanesi rifugiatisi in Siria durante la guerra civile libanese. Sempre dal Libano, pochi anni dopo, la Siria diventa nuovamente territorio di protezione ed ospitalità per le famiglie libanesi che si ritrovavano sotto i bombardamenti israeliani durante la guerra del luglio 2006. Secondo diversi racconti raccolti proprio tra i siriani oggi rifugiatisi in Libano, centinaia di case, scuole e moschee diventavano giacigli per migliaia di libanesi. Una memoria collettiva che, complici intrighi politici sempre più biechi tra i due paesi, rischia ora di sfumare per dare spazio alla rabbia dei libanesi di fronte all’arrivo di un milione e mezzo di siriani.

Mounira Al Solh, Now Eat My Script, 2014 (video integrale disponibile qui)

MOUNIRA AL SOLH Now Eat My Script, 2014 Video, colore, suono colore, suono 24’50’’ still da video Courtesy Mounira Al Solh and Sfeir-Semler Gallery Hamburg / Beirut

Anche l’artista libanese Mounira Al Solh sceglie il mezzo del video. Now Eat My Script (2014) è fatto di inquadrature ravvicinate e di lentissime panoramiche. La voce narrante narra dell’impossibilità di una scrittrice di concentrarsi sul suo lavoro perché tormentata dal ricordo di quando la sua famiglia ha lasciato Beirut per Damasco durante la guerra civile libanese. Si apre quindi una riflessione sul trauma e dell’impossibilità di parlarne mentre lo si vive. Il dolore può essere raccontato solo a posteriori.

Quale viaggio? Come si può pensare  oltre i confini? Che ritorno ci si immagina?

Sono alcune delle questioni che tracciano le ultime due opere proposte.

Bouchra Khalili, The Mapping Journey Project, 2008-2011

BOUCHRA KHALILI The Mapping Journey Project, 2008-2011 Video installazione, otto canali singoli / Video installation, eight single channels Installation view, New Museum, New York, 2014 Courtesy Bouchra Khalili and Galerie Polaris, Paris Photo Benoit Pailley

Bouchra Khalili, artista francese-marocchina, porta otto videointerviste girate tra il 2008-2011 (The Mapping Journey Project). Le persone intervistate sono migranti provenienti da diversi paesi e mentre raccontano il loro itinerario, sempre non lineare, tracciano il percorso con il pennarello su una cartina. Tutti si augurano di trovare pace, di integrarsi. La maggior parte sogna di tornare a casa un domani. Ne risulta una narrazione essenziale e toccante. I video sono proiettati in contemporanea e l’installazione occupa tutta la sala, costringendo lo spettatore a viaggiare, a spostarsi per ascoltare le diverse storie.

– Manaf Halbouni, Nowhere is Home, 2015

MANAF HALBOUNI Nowhere is home, 2015 Materiali vari, dimensioni variabili / Mixed media, dimensions variable © Manaf Halbouni

In Nowhere is Home (2015) Manaf Halbouni racconta della sua condizione di esilio imposto: allontanatosi nel 2008 dalla Siria, suo paese natale, per studiare e per sfuggire dalla leva obbligatoria, non ha potuto più mettervi piede a causa di sanzioni dell’esercito.  Stranamente, però, quest’opera non si ispira alla tragedia siriana ma alla sofferenza e all’ansia di vivere nella Germania di oggi, imperversava dal risorgere di nazionalismi a tinte islamofobi come quello del gruppo di a PEGIDA (Patriotic Europeans Against The Islamization of the West). L’installazione è costituita da un’auto dove l’artista carica tutti i suoi oggetti personali come nel tentativo di fuggire a questa minaccia nazionalista a cavallo tra un infausto passato e un incerto presente.

Ancora una volta, queste opere ci portano a ripensare l’unidirezionalità del viaggio, complicando ulteriormente le nostre convinzioni rafforzatisi nella posizione di spettatori sedentari.

Un invito, per l’ultima volta, a ripartire da noi stessi e dai nostri percorsi di vita.

 

 

 

 

 

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Questa voce è stata pubblicata il 21 luglio 2017 da in Massa-Individuo, Medio-Oriente, Migrazioni con tag , , , , , , .
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