A cura di Roberto Memme e Paola Arcari.
“I cinesi sembrano tutti uguali.”
Bene, è inutile dire che non sia proprio così…
In questo triplo appuntamento non vogliamo ribadire quanto sia relativa e spesso appiattita la percezione del Diverso dall’interno di una cultura maggioritaria di provenienza.
Con alcuni amici, scatteremo piccole fotografie del gigantesco panorama cinese (esistono 56 gruppi etnici in Cina!) parafrasando due cliché sulla Cina e i cinesi che hanno a che fare con l’immagine: la moda e le origini, storiche e nazionali, di comunità che noi chiamiamo indistintamente cinesi.
Una prova d’abito nel camerino della storia per interrogarci sulle diverse sfumature che il nazionalismo può assumere: “indosseremo” per un attimo i “capi” più rappresentativi dell’ outfit dei nazionalismi cinesi in un periodo in cui il revival del nazionalismo in stile etnico sembra sfilare su molte delle maggiori passerelle politiche internazionali (e forse è tornato di moda proprio perché un po’ vintage!).
Eccovi la prima sezione di un piccolo catalogo per le quattro stagioni 2017, l’Anno del Gallo!
Suddivisione amministrativa della Cina e dispute territoriali (Fonte: web).
#1. Primavera.
Taiwan.
Lo skyline di Taipei visto dal grattacielo Taipei 101 (uno dei più alti al mondo) – © Paola Arcari
La presidenza Trump è da poco sbocciata e con essa si risveglia anche la questione dell’autonomia della rigogliosa isola di Formosa. Con una semplice telefonata alla presidente taiwanese Tsai Ing-Wen viene rimesso in discussione il “principio dell’Unica Cina” che governa i rapporti tra Pechino, Taipei (capitale di Taiwan) e la diplomazia internazionale.
Ora, non concentriamoci sul dato che sia stata contesa tra Cina e Giappone per un secolo fino alla fine della seconda guerra mondiale e nemmeno sul fatto che le origini ancestrali della popolazione indigena siano riconducibili agli aborigeni malesi e polinesiani, ma ricordiamoci che a seguito della Rivoluzione Cinese del ’49 il KMT (Kuomintang, lo storico partito nazionalista cinese di Chiang Kai-shek) si rifugiò proprio a Taiwan e né diventò la roccaforte.
Statua di Chiang Kai-shek nel memoriale a lui dedicato – © Paola Arcari
La rivalità politica storica tra Kuomintang e Partito Comunista Cinese si è sedimentata nel tempo, un dualismo ridimensionato sotto il cappello del riconoscimento internazionale della Cina “di terra” come, appunto, l’unica vera Cina.
Trump scoperchia per un attimo questo principio (una seconda telefonata, stavolta diretta a Xi Jinping, ha comunque ridimensionato il disappunto del presidente della Repubblica Popolare Cinese), mettendo a nudo le rivendicazioni autonomiste degli isolani che si appellano all’autenticità e all’unicità del proprio governo, che risalirebbero a ben prima del Taiwan Relations Act del ’79. Con questo atto e le successive Six Appendices, le amministrazioni U.S.A. di Carter e Reagan consolidarono Pechino come unico legittimo interlocutore internazionale cinese, estromettendosi dalle questioni di sovranità tra Cina e Taiwan ma riservandosi comunque l’approvvigionamento militare della Repubblica di Cina (ossia l’odierna Taiwan), oltre che favorendo la ricerca di una soluzione pacifica condivisa. In tre diversi momenti comunque (sono due le Crisi dello Stretto di Taiwan nel ’54 e nel ’58, alle quali seguì un’escalation di ostilità tra ’95-’96) riaffiorò il rischio di un reale confronto armato tra le “due Cine”.
Arco di Trionfo di Chiang Kai-shek nella Memorial Hall di Taipei – © Paola Arcari
Se ci immaginassimo un selfie dei taiwanesi scattato su questo sfondo, non vedremmo l’ombra della dominazione giapponese, terminata proprio grazie all’intervento del controverso Chiang Kai-shek a guida del KMT, e ancor meno le lontane sfumature coloniali degli olandesi e degli spagnoli.
Scorgeremmo, invece, tracce del disgelo di una comunità a lungo gelata dalle divisioni.
La fine della dominazione giapponese e la degenerazione della guerra civile cinese portarono sull’isola, oltre allo stesso Chiang Kai-shek, figura centrale nella liberazione dai giapponesi, un intero esercito di cinesi nazionalisti. Il che generò non pochi malcontenti nella comunità taiwanese.
Il dissenso taiwanese al Kuomintang degenerò il 28 Febbraio 1947, data del c.d. Massacro 228, che proprio il KMT placò nel sangue e che aprì una lunga stagione di faide tra le due fazioni.
Gli anni del c.d. “Terrore Bianco”, un lungo periodo di tensioni, sparizioni e soppressioni che arriverebbe fino al 1992, squarciarono il tessuto sociale locale sotto il velo delle censure.
Armatura tradizionale taiwanese – © Paola Arcari
Per farci un’idea di quanto si siano protratte le divisioni nell’eterogenea comunità dell’isola, una giovane ragazza taiwanese figlia di esuli del Kuomintang ci racconta che fino a pochi anni fa non era assolutamente consigliabile parlare in mandarino (molto diverso dal dialetto taiwanese) nei mercati e nelle strade di alcuni quartieri per non incappare in qualche forma di discriminazione…
Sebbene un timido processo di restituzione della memoria di questi avvenimenti al popolo sia iniziato attraverso l’approvazione del Taiwan’s Archives Act (che nel 2002 ha protetto dalla distruzione interi fascicoli), lo scenario storico-politico ci può lasciar presagire che Taiwan non sia ancora nella “posa” giusta per un confronto diretto con la Cina.
Lo strappo nella regola dell’ “Unica Cina” aperto dalla telefonata di Trump, però, ha fatto ben sperare i 23 milioni di cittadini della democratica Taiwan in un momento positivo nel processo di ricomposizione sociale.
Lo stesso presidente Tsai Ing-Wen (guida del Partito Democratico Progressista, fortemente impegnato per le cause dei diritti umani e dell’identità taiwanese), sul tema della recente istituzione del 28 Febbraio come festa nazionale, ha dichiarato che “solo con la verità ci sarà riconciliazione” e che “solo con la riconciliazione ci sarà unità.”
“Solo allora Taiwan potrà andare davvero oltre” e raccogliere, forse, il fiore dell’agognata indipendenza.
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