A cura di Luca Maria Torre
Testo del quesito referendario del 4 dicembre 2016.
Vorrei sin da subito precisare che non scrivo da esperto costituzionalista, ma ho comunque avuto modo di informarmi, di leggere e di seguire diversi dibattiti in questa lunga campagna referendaria fino a raggiungere una mia convinzione: al referendum del 4 dicembre 2016 voterò NO.
Cercherò ora di entrare nel merito della Riforma Renzi-Boschi e spiegare a tutti la mia scelta. Il mio NO al referendum costituzionale è legato ad un’idea di democrazia che in questa riforma non vedo, anzi, penso che con l’approvazione di tale proposta si intraprenderà proprio la strada opposta che i nostri padri e le nostre madri costituenti avevano intrapreso. Il mio NO vuol essere un’opposizione costruttiva e positiva a questa riforma, una scelta di difesa civica, una scelta di difesa di noi cittadini. Questa riforma ambiguamente ci porterebbe a ricoprire la veste di semplici elettori di un’élite governante, quando invece la nostra Costituzione, fondando la democrazia sul lavoro, rivela un’idea di un apporto dei cittadini molto più continuativo nel tempo rispetto alla semplice partecipazione alla “competizione elettorale” della domenica. Mi sembra che il tessuto plurale, sociale e istituzionale di cui tutti siamo parte integrante, in questa riforma venga semplificato a vantaggio di un capo.
Con questo non voglio assolutamente dire che si rischia una deriva autoritaria, però l’intento della riforma è quella di portarci verso un’altra democrazia: quella di tipo governante. Quello che infatti si percepisce e quello che dichiarano esplicitamente i fautori e sostenitori della riforma non è un arricchimento del canale della rappresentanza politica, ma, al contrario, un’evoluzione verso una sua riduzione e semplificazione. Il modello di democrazia che la riforma viene a creare sarebbe quella di una democrazia di tipo Schumpeteriano, ossia considerata “strumento istituzionale mediante la quale i leader politici, espressione di corposi interessi particolari e divergenti, si propongono per governare in una competizione che ha per oggetto il voto popolare, secondo modalità assai simili a quelle che definiscono la concorrenza economica”. Per saperne di più >>
Sulle autonomie territoriali
Si va esattamente in questa direzione se pensiamo che la riforma trasforma il rapporto di fiducia in un rapporto esclusivo tra Governo e Camera dei Deputati, escludendo così il Senato. In più, elemento ancor più contestabile, rende praticamente subalterne le autonomie territoriali con i loro indirizzi politici rispetto al Governo nazionale. Se consideriamo poi il “combinato disposto” della Legge elettorale dell’Italicum, la situazione non può che peggiorare. Questa però non è l’idea di democrazia che sta nella nostra Costituzione che, sin dai principi fondamentali, ci dirige verso un modello in cui hanno un peso molto rilevante le autonomie, perché sono luoghi di partecipazione e rendono possibile un autogoverno dei cittadini. Non siamo a rischio di democrazia, si propone però un’idea di democrazia che non mi piace per nulla. Ritengo per di più ipocrita affermare che la prima parte della Costituzione risulti inalterata con l’eventuale attuazione di questa riforma, perché la Repubblica democratica fondata sul lavoro risulterebbe ancor più un suono vuoto di quel che già adesso non appare. Inoltre il riconoscimento delle autonomie all’art. 5 sembra svanire per un’esigenza semplificativa da parte del potere centrale.
Articolo 5 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Forse tutti siamo più o meno delusi dall’operato delle Regioni poiché hanno fallito nel loro compito di essere vettore di democrazia, ma la risposta coerente alla nostra Costituzione sarebbe stata riformare le Regioni, non svuotarle e riportare i poteri al centro. Nella confusione della Riforma l’idea che avanza è quindi quella in cui noi risultiamo semplici elettori a discapito della partecipazione. E, se ci pensiamo bene, quest’idea combacia con l’immagine dell’attuale Capo di Governo, propositore della Riforma, che con il suo modo di essere e la sua capacità comunicativa dimostra una vicinanza solamente esibita ma che non è reale. Dobbiamo renderci conto del fatto che può esistere una democrazia partecipativa in cui prendiamo in mano noi stessi i nostri destini e proviamo a fare sul serio.
Sul bicameralismo paritario e sul nuovo Senato
Ma passiamo ora alla questione del superamento del bicameralismo paritario. Sicuramente stiamo parlando di un sistema che potrebbe essere positivamente modificato. Il bicameralismo attuale deriva da una situazione storica che lo ha fatto istituire con una forte connotazione riflessiva, di ponderazione. In più, già all’epoca della Costituente c’era chi voleva un Senato diverso da come è stato poi disegnato. Ma bisogna dire che l’accusa che viene fatta al bicameralismo perfetto di aver paralizzato il Paese è senza ombra di dubbio priva di fondamento. Il panico causato dalla cosiddetta navette, ossia il ripetuto passaggio da una Camera all’altra delle leggi prima della loro approvazione è totalmente infondato. I dati definitivi dell’ultima legislatura dicono che su 391 leggi approvate dal Parlamento italiano sono 301 quelle approvate già in seconda lettura, quindi senza navette, dando segno di un bicameralismo rapido, sono poi delle rimanenti 90 addirittura 75 quelle approvate in terza lettura, a conferma dell’obbligo di demitizzazione del “guaio” del bicameralismo perfetto. Per saperne di più >>
Quello che serve non è la velocizzazione del processo di legiferazione, ma una diminuzione della quantità di leggi prodotte. Ricordiamo tutti che una delle Leggi più rapide degli ultimi tempi è la Legge Fornero e sappiamo tutti i suoi effetti. Il rischio potrebbe essere proprio questo: fare leggi veloci e poco ponderate.
Secondo il disegno della Riforma il nuovo Senato delle autonomie sarà composto da 100 rappresentanti, cinque eletti dal Presidente della Repubblica e gli altri divisi tra rappresentanti dei Consigli Regionali (74) e sindaci delle Città Metropolitane (21). Ma se davvero si voleva dare voce e rappresentanza ai territori e agli interessi delle autonomie come si può pensare che una tale composizione possa essere sensata? Mi spiego. Una riforma sensata della seconda camera doveva a mio avviso prevedere una maggiore rappresentanza del popolo ed essere rappresentanza di formazioni civili vitali, vive, che ormai i partiti politici faticano ad intercettare. Serve un arricchimento della capacità rappresentativa dei nostri territori non una sciatta semplificazione. I comuni, che sono il fulcro del nostro tessuto autonomistico, come possono essere rappresentati con un solo sindaco per regione? Per di più eletto dai rispettivi consigli regionali. Il rischio, anzi la certezza, sarà che i sindaci non saranno scelti per la loro capacità di rappresentare un determinato territorio ma per la loro appartenenza al colore politico della maggioranza regionale. Lo stesso vale per i rappresentanti dei Consigli Regionali: la derivazione di tale modello deriva dal Bundesrat austriaco, che per sua natura è definito dagli esperti in materia e dai manuali un modello debole, proprio perché i rappresentanti anche qui sono scelti per l’appartenenza ad una determinato partito politico e non per la loro rappresentatività del territorio. Diverso sarebbe stato invece se si fosse preso spunto dal Bundesrat tedesco dove vengono scelti dei delegati del governo dei lander che vanno in Parlamento con un voto unitario, con un voto quindi di delegazione. In questo modo in Germania accade che i delegati dei governi dei territori, dovendo votare unitariamente (un voto per ogni territorio), sono “costretti” a votare per il territorio che rappresentano, andando oltre la semplice appartenenza partitica. Questo è un modello forte che doveva essere preso ad esempio, ma non lo si è fatto. È giusto muoversi, cambiare, ma ritengo che debba essere fatto con senso.
Sulla modifica del Titolo V
Ma la parte della Riforma relativa al Titolo V riguarda da un punto di vista tecnico la parte peggiore. A mio avviso l’accentramento non è la soluzione, ma misteriosamente dal disegno di questa riforma sembra non esserci più questa necessità di partecipazione della società alla costruzione della Cosa Pubblica, sembra così trapelare un po’ di leggerezza nella nostra cultura politica. Rispetto al Titolo V, uno dei punti forti dei sostenitori della Riforma è la questione delle materie concorrenti, ossia che sono affidate alla legislazione sia dello Stato che delle Regioni, sostanzialmente lasciando lo Stato a legiferare per principi e le Regioni per tutto ciò che non è principio, ossia nel dettaglio. Si dice, ed in effetti succedeva e succede, che lo Stato non si fermi a legiferare solamente per principi ma molto spesso vada anche oltre, legiferando anche per zone della disciplina che spetterebbero alle Regioni. La Riforma Renzi-Boschi è stata proposta come risolutrice di tale contenzioso tra Stato e Regioni, quindi separando (in maniera netta, si dice) quelle che sono le competenze dello Stato da quelle che sono, invece, delle Regioni. Obiettivo che però è clamorosamente mancato, nel senso che nel testo della Riforma si legge che in molte (molte!) materie di competenza dello Stato si riporta la dicitura “disposizioni generali e comuni su”. Come si evince dal senso della frase in italiano, la competenza non è netta ma rimane vaga e si lascia effettivamente la doppia competenza di Stato e Regioni nelle materie così disciplinate. Inoltre, lo Stato, non essendo più relegato alla legiferazione sui soli principi, sarà legittimato ad andare oltre, nel dettaglio, e, forse sì, la conflittualità si ridurrà, ma naturalmente sapremo il perché: quando il predatore è lasciato solo con la preda, la guerra non dura a lungo.
Si dice che però alle Regioni spetti la cosiddetta compensazione perché ci si rende conto che siano state maltrattate. La compensazione sarebbe la rappresentanza delle Regioni al centro attraverso il Senato delle autonomie territoriali. Purtroppo però la compensazione non funzionerà. Per le ragioni che abbiamo detto prima, ossia perché verrebbe a nascere un Senato non realmente rappresentativo dei territori, ma anche per i poteri che verranno assegnati al Senato i quali non gli consentiranno di difendere le autonomie. Facciamo un esempio: quando sarà in gioco la Legge sull’Autonomia della Finanza Pubblica e sul Sistema Tributario il Senato non potrà bloccare la legislazione della Camera dei Deputati, cioè quando sarà in gioco l’autonomia finanziaria delle Regioni, il Senato che dovrebbe essere il difensore a Roma delle Regioni non avrà poteri di co-legiferazione. Questo è un esempio della mancata compensazione e della effettiva subalternità delle autonomie nei confronti del potere centrale. Ma non è tutto. Nell’art. 117 viene inserita una particolare clausola che recita “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Clausola molto generica ed elastica ad interpretazioni che fornirà facile pretesto al Governo centrale per attrarre verso sé competenze di Regioni politicamente di colore opposto.
Concludendo vorrei semplicemente far capire che sono assolutamente propenso al cambiamento, non sono tra quelli che si oppongono per il solo gusto di opporsi o per questioni di colore politico. Anche se il voto avrà forti ripercussioni politiche votiamo in merito all’eventuale cambiamento della Costituzione, non sull’operato del Governo. Con questo articolo ho semplicemente cercato di togliere il velo che secondo me è stato posto su questa Riforma costituzionale e mostrare cosa realmente ci sta sotto. Sotto il velo della semplificazione e del cambiamento inevitabile ci sta una pasticciata Riforma che mira ad arrivare ad un preciso tipo di democrazia, di cui noi cittadini non ne faremo più parte se non nel momento della competizione elettorale. L’intento è quello di adattare la necessaria complessità dello Stato alle regole del mercato.
Il cambiamento lo vogliamo tutti, ma in questo caso si fa un passo nella direzione sbagliata. Il 4 dicembre voterò NO per salvaguardare la nostra democrazia, per la nostra Costituzione e in opposizione ad una prepotenza che va contro la pluralità del nostro Paese.