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Appunti di Cooperazione Internazionale

“Attento a come parli!” Il linguaggio come forma di controllo

A cura di Davide Garlini

La prima cosa che vorrei controllare se avessi mire dittatoriali? Il linguaggio!

Le parole, le frasi, il linguaggio, ciò che tutti noi usiamo per comunicare, per riflettere, per imprecare, persino per sognare e a cui siamo così abituati da darlo per scontato. È davvero così limitato il ruolo che la lingua può avere nelle nostre vite? Ci serve solamente per evitare di comunicare a gesti? Può essere sfruttata per raggiungere scopi più subdoli e pericolosi? Io credo di sì! Anzi, ne sono del tutto convinto e nelle prossime righe vorrei raccontarvi il perché.

Uno Stato che si trova in una situazione potenzialmente imbarazzante – nella quale è consapevole di commettere qualcosa di non completamente legale, lecito o morale ma non desidera che il proprio popolo se ne renda conto – inventa un nuovo vocabolario, un nuovo linguaggio, sempre e comunque, senza eccezioni. Una delle poche cose che tutti gli esseri umani hanno infatti in comune è il pensare in una data lingua, e attraverso quella lingua interpretare e affrontare la realtà. Controllare una lingua significa controllare i pensieri di un essere umano o, in certi casi, di un’intera popolazione. Rifletteteci! Lo strumento con cui quotidianamente riflettiamo e comunichiamo può essere accuratamente plasmato in modo tale da renderci esseri sempre meno pensanti, fino alla totale passività. Inutile sottolineare quanto tale controllo sia direttamente proporzionale alle mire dittatoriali di un determinato governo.

La lingua è una delle prime vittime di una dittatura, una vittima silenziosa, della cui sorte pochi sembrano accorgersi, per non parlare di interessarsene. Essendomi specializzato in diritti umani ma provenendo da studi linguistici e letterari, pochi argomenti mi hanno stimolato tanto quanto l’analisi di questo vero e proprio stupro che numerose lingue, in varie epoche, hanno subito. Dei crimini passati sempre e comunque inosservati dato che i cambiamenti linguistici sono e sempre saranno quasi impercettibili per le generazioni che li stanno vivendo. Come il raffinatissimo autore David Grossman afferma nel suo celebre saggio Il Vento Giallo: “le parole ingannevoli sono come sabbia che nasconde le mine”.

Per ovvi motivi mi soffermerò, in queste poche righe, solamente su pochi esempi, sperando di stimolare in qualcuno dei lettori alcune riflessioni sul proprio modo di gestire la lingua con cui, ogni giorno, porta avanti la vita sociale. Gradirei soffermarmi su esempi che appartengono al XX secolo e che provengono da contesti più o meno parte dell’immaginario collettivo dei potenziali lettori.

Un esempio tanto perfetto da sembrare quasi artistico, geniale per quanto perverso, di manipolazione della lingua per fini socio-politici è rappresentato da quella che Victor Klemperer definiva Lingua Tertii Imperii, la lingua del terzo impero, del terzo Reich. Il tedesco risulta già di per sé uno straordinario punto di partenza per un’analisi come questa. In un certo senso e per motivi che cercherò di riassumere, la più estrema delle lingue, una lingua per secoli ritenuta originaria, una lingua ovvero che non ricorreva a radicali di origine straniera. Un assunto ovviamente del tutto illusorio in quanto la grammatica tedesca è quasi tutta strutturata sul latino ma che, ciò nonostante, ha molto influenzato l’immaginario culturale germanico grazie alla capacità di tale lingua di autogenerare, in un certo senso, il proprio vocabolario. Lo stesso vocabolo Deutschland è l’unico nome di paese europeo a non derivare da un’indicazione geografica, dal nome di un luogo o dal nome di un popolo. È il paese del popolo in sé: Deutsch è una forma aggettivale dell’antico tedesco Tuits, “popolo”. Ecco perché, magari qualcuno dei lettori se l’era già chiesto, nessuno dei vicini della Germania chiama i suoi cittadini alla stessa maniera: allemands, germans, tedeschi, nemcy ecc.

Scusandomi per i tecnicismi, sottolineo che essi sono però fondamentali dato che è da qui, da questi antichissimi assunti tedeschi, che l’ideologia voelkisch nazista fu sviluppata. Nel corso del consolidamento del potere hitleriano in Germania infatti la parola Volk iniziò a dar vita a tutta una serie di nuovi vocaboli (Volksfeiertag, Volksfest, Volksgemeinschaft, Volksfremd…). Volk divenne uno di quei vocaboli tedeschi che trascendevano l’accezione specifica per assumere un significato storico e mitico, indicando un insieme di individui legati da un’essenza trascendente. Il significato di razza, popolo, popolazione, stirpe, nazione venivano sempre più intesi entro lo spazio di un proprio gruppo tribale opposto agli altri. Il nazismo, grazie alla sottile propaganda sintattica portata avanti da Joseph Goebbels, attribuì a tale vocabolo un’idea di espansione e di dominio, di una missione di un unico Capo per riunire tutti i Volksgenossen (camerati) in un unico Reich e fornir loro il Lebensraum (spazio vitale) necessario. La lingua è il primo passo verso una rielaborazione della mente umana e, come lo stesso Goebbels affermò in un discorso tenuto nel 1933: “l’essenza di ogni propaganda sussiste nel convincere le persone di un’idea, così profondamente, così vitalmente, che alla fine esse ne sono sottomesse e non riescono più a liberarsene”.

Il Ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels capì perfettamente il perverso potere derivante dal controllo del linguaggio

Tragico quanto ironico è il fatto che nessuno apprese e fece propria tale lezione meglio delle vittime stesse di quanto appena raccontato. Quegli ebrei sopravvissuti che, dal 1948 in avanti, sono passati dalla parte del carnefice e tutt’oggi non resistono a mettere quotidianamente in pratica, ai danni di un altro popolo, quanto imparato dai maestri ariani. Le parole in questo caso sono, prima di essere consegnate al mondo, accuratamente lavate e stirate. Amos Elon chiama questo fenomeno “la lavanderia delle parole”, il cui compito è sbiancare le brutture. Nulla può spiegare tale concetto meglio di alcuni esempi di parole passate per la lavanderia. I territori occupati ovviamente non si chiamano così in Israele. La più diffusa delle alternative è semplicemente Territori. Più pulita, più astratta, nessuno occupa niente e non caccia nessuno. Contemporaneamente si risvegliano però echi bellici verso uno spazio ritenuto vitale, il Lebensraum che ritorna a fare capolino. E questi territori non vengono conquistati o annessi o invasi ma condensati. E non esiste una forma di protesta araba ma solo una sovversione, o un attentato. Non leggerete mai di intellettuali arabi e di agricoltori, ma al massimo di uomini colti e contadini. Non sentirete mai parlare di una psicologia araba, ma solo di una mentalità araba. L’esercito israeliano non disperde i manifestanti ma li mette in fuga. E comunque non si tratta di manifestanti ma di folla turbolenta coinvolta non in dimostrazioni ma in sommosse e disordini. Il massimo viene ovviamente raggiunto nel caso di rapporti su azioni violente con conseguenze mortali: nessun civile arabo viene mai ucciso, al massimo viene colpito, muore. O addirittura trova la morte, come si trova un cucciolo abbandonato o una moneta per terra. Un civile palestinese cammina tranquillamente per la strada e all’improvviso trova la morte, stupefacente!

Così come un coltello o una pistola, anche una parola può essere utile, innocua o letale a seconda di come viene usata. Niente più delle parole può modificare la realtà e, in casi particolari, nascondere la verità. Un terzo e ultimo esempio, forse il più diretto e specifico, ci viene fornito dall’America English e dalla politica portata avanti dai diversi governi statunitensi durante ciascun dopoguerra.

Molti dei lettori avranno per lo meno sentito nominare una condizione mentale chiamata, in italiano, disturbo post traumatico da stress (DPTS) ovvero l’insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento. Inutile spiegare quanto tale condizione sia diffusa tra i reduci di guerra. In poche parole ciò si verifica quando il sistema nervoso di un combattente raggiunge il suo massimo punto di stress e non può ricevere ulteriori input.

Durante la Prima Guerra Mondiale, cento anni fa, questa condizione veniva chiamata Shell Shock. Due brevi e dirette sillabe quasi a richiamare il suono degli spari stessi, un termine brutale, quasi rozzo, ma chiaro. Con lo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale l’identica condizione di stress mentale cambiò nome e iniziò a essere definita Battle Fatigue. Quattro sillabe, un po’ più lunga da pronunciare, un po’ più morbida, non sembra far così male (Shell ShockBattle Fatigue). Shock è molto peggio di Fatigue vero? Di cosa preferireste soffrire? Di uno shock o di una fatigue? In ogni caso agli americani non fu dato troppo tempo per chiederselo dato che solo cinque anni più tardi, con lo scoppio della guerra in Corea, il termine fu nuovamente modificato e la stessa identica condizione divenne una Operational Exhaustion. Otto sillabe nelle quali qualunque traccia di umanità è stata completamente eliminata, trasformando un problema psichico e molto molto umano in qualcosa che sembrerebbe poter succedere a un’automobile o a un macchinario.

L’apice viene in fine raggiunto in Viet-Nam, una guerra durante la quale le bugie raccontate al mondo furono probabilmente superiori alle bombe sganciate. Ed è a seguito di questa guerra che viene diffuso il termine con cui ho iniziato quest’ultima analisi, ossia il Posttraumatic Stress Disorder. Niente più Shock ma Stress, niente più Exhaustion ma Disorder. Sterilità assoluta.

Concludo appropriandomi di quanto affermato da George Carlin, uno dei più grandi analisti della lingua come mezzo per mascherare la realtà: “scommetto che se il nostro governo avesse continuato a definire tale problema Shell Shock i veterani del Viet-Nam avrebbero ricevuto molto più aiuto e assistenza una volta tornati a casa”.

Militare in shock post traumatico da stress, semplicemente non può più ricevere input, la sua mente è satura

Difficile trovare una conclusione appropriata per un articolo del genere. Io stesso, per realizzarlo, mi sono servito del mezzo stesso che ho processato. Chissà quindi se, senza accorgermene, nella scrittura stessa di questo pezzo io non sia caduto in trappole come quelle di cui ho raccontato e di cui solo tra qualche generazione ci si accorgerà. In ogni caso, il mio obiettivo era analizzare qualcosa che, per sua stessa natura, viene dato eccessivamente per scontato e trascurato ma che gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui viviamo e vediamo le cose. Permettere ad altri di controllare tale strumento è molto pericoloso in quanto esso può trasformarsi da un momento all’altro in uno dei più subdoli e silenziosi strumenti di distorsione della realtà e, ancor di più, della realtà nella nostra mente.

 

Libro consigliato 1: Il Vento Giallo, David Grossman

Libro consigliato 2 (per ambiziosi): LTI, Viktor Klemperer

Imparare ridendo: George Carlin

Un commento su ““Attento a come parli!” Il linguaggio come forma di controllo

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Questa voce è stata pubblicata il 21 ottobre 2016 da in Relazione Stato-Individuo con tag , , , , , , .
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