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Appunti di Cooperazione Internazionale

Lavorare e raccontare i contesti di guerra. Cosa è cambiato? Riflessioni personali dopo un incontro particolare

a cura di Laura Cicirata

«Il 3 ottobre 2015, bombardamenti aerei statunitensi hanno ucciso 42 persone e distrutto l’ospedale traumatologico di Medici Senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan.»

Con queste parole di Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, ha inizio l’incontro-testimonianza dal titolo “Lavorare e raccontare i contesti di guerra. Cosa è cambiato?” organizzato dalla rassegna culturale ‘Molte fedi sotto lo stesso cielo’ presso il cine-teatro Eden di Stezzano.

La giornalista Laura Silvia Battaglia, il fotografo Giovanni Diffidenti e il presidente di MSF Italia Loris De Filippi hanno raccontato le loro esperienze sul campo e le difficili situazioni umanitarie di Siria, Yemen, Sud Sudan e Sudan. Credits: Medici Senza Frontiere, sezione di Bergamo

Davanti ad una sala relativamente piena, ma non come sperato, la giornalista Laura Silvia Battaglia ha instaurato un dialogo con gli ospiti della serata ed evidenziato quasi immediatamente la distanza che intercorre tra i luoghi teatro di guerra posti sotto i riflettori dei media e quelli invece quasi dimenticati, non più davanti agli occhi dei telespettatori, sollevando una questione umana di dimensioni enormi.

Come è possibile che ci siano luoghi di conflitto in cui di una popolazione di 22 milioni di persone solo 6 milioni abbiano accesso all’acqua potabile? E come è possibile che in un mondo estremante connesso come quello in cui viviamo, quasi nessuno ne parli? Questo è il caso dello Yemen, che la giornalista cita, ma durante il corso della serata vengono presentate altre situazioni tragicamente simili, dalla penisola Arabica al Corno d’Africa, fino all’Africa sub-sahariana.

Le parole di Loris penetrano nel cuore. La descrizione delle procedure di avviamento e della costruzione di un nuovo ospedale, della formazione del personale che vi lavorerà e la mole di pazienti che dal primo giorno si recano fiduciosi nell’edificio, riempiono di speranza.

Ma subito dopo, la gioia si spegne, quando viene proiettato un video che mostra lo stato dell’ospedale di Kunduz, uno dei tanti ad essere stato bombardato da aerei militari: il tetto sventrato, i letti distrutti, le pareti sfondate, gli strumenti sanitari praticamente inceneriti, polvere e cenere ovunque. In quell’ospedale erano ricoverate 130 persone e molte altre vi si erano recate in giornata per cure mediche più lievi, nella notte in cui è avvenuto il bombardamento in sala operatoria era in corso un intervento chirurgico e il medico che stava conducendo l’operazione è stato colpito ad un braccio, perdendolo e dopo qualche ora, ancora sotto i bombardamenti incessanti, ha perso la vita. L’uomo nel video, un impiegato amministrativo della struttura ospedaliera, ha visto morire amici, colleghi e bambini e lo racconta a fatica, con le lacrime agli occhi. Nessuno avrebbe mai pensato che un luogo “sacro” come un ospedale potesse trasformarsi in un luogo di morte, per mano umana.

L’ironia della sorte vuole che dopo la denuncia di MSF alle autorità internazionali, l’esercito statunitense, uno dei più preparati dal punto di vista strategico e famoso per i propri interventi militari “chirurgici” e precisi, si sia giustificato declinando la responsabilità di tale atto ad una serie di inspiegabili errori tecnici.

La giornalista Laura Silvia Battaglia, il fotografo Giovanni Diffidenti e il presidente di MSF Italia Loris De Filippi hanno raccontato le loro esperienze sul campo e le difficili situazioni umanitarie di Siria, Yemen, Sud Sudan e Sudan. Credits: Medici Senza Frontiere, sezione di Bergamo

La giornalista Laura Silvia Battaglia, il fotografo Giovanni Diffidenti e il presidente di MSF Italia Loris De Filippi hanno raccontato le loro esperienze sul campo e le difficili situazioni umanitarie di Siria, Yemen, Sud Sudan e Sudan. Credits: Medici Senza Frontiere, sezione di Bergamo

A questo punto, De Filippi solleva una questione moralmente difficile da sostenere: come mai nelle piazze occidentali i pacifisti, gli indignati, i sostenitori di una tregua nei conflitti armati non hanno manifestato per chiedere un cessate il fuoco, una maggiore cooperazione e attenzione nei confronti di coloro che vivono e quotidianamente lavorano in territori di guerra? A cosa è dovuta questa indifferenza nei confronti delle nuove guerre che ogni giorno ci vengono mostrate dai media? Perché nessun benpensante alza la voce per esprimere il proprio dissenso?

A queste domande, solo il silenzio della sala ha saputo dare una risposta.

Con la lucidità e la prontezza tipica di chi è abituato a dialogare e argomentare le proprie tesi, De Filippi ha poi risposto ad un dubbio strisciante che in molti, forse, stavano pensando: perché rimanere? Perché non scegliere di partire e andare lontano, magari tornando a casa, in un Paese in pace, dove la parola guerra è solo un vecchio ricordo o tuttalpiù qualcosa che non ci riguarda? Vale la pena mettere a rischio la propria vita per aiutare una persona che neppure conosci?

La risposta è immediata e tagliente: sì. Sì perché, conferma Loris, quando una donna partorente intraprende un cammino di decine di chilometri, per poter partorire in una struttura ospedaliera che le possa garantire un parto sicuro per lei e per la creatura che metterà al mondo; o quando gli occhi imploranti di un padre ti chiedono di operare il figlio che è stato colpito ad un occhio da uno dei tanti “barili esplosivi” sganciati da aerei ad alta quota, pur non sapendo se sopravvivrà, non puoi sottrarti al tuo compito di medico.

Restare e combattere, lottare ogni giorno, con la paura che in un momento qualsiasi della giornata, tutto possa finire. Questa è la scelta che il personale di Medici Senza Frontiere e moltissimi altri operatori impiegati in zone di guerra fanno coraggiosamente ogni giorno.

Come Loris De Filippi, anche Giovanni Diffidenti ha deciso di spendere la sua vita in zone di conflitto, lavorando come fotografo. Ha visitato 17 Paesi dove la guerra è un imperativo, in diverse occasioni non è stato facile potervisi recare, ma ha tenacemente insistito e, anche se talvolta per poco tempo, è riuscito a vivere con la popolazione locale, osservare le loro vite e immortalare i momenti, spesso dolorosi e toccanti, delle loro vite segnate dalla paura e dalla stupefacente capacità di sopravvivenza. Le foto che Giovanni ha mostrato ad un pubblico in religioso silenzio, sono state in grado di catturare istanti di vite che non si arrendono, che si ingegnano per poter garantire ai propri figli un’istruzione, un pasto al giorno e una vita il più normale possibile, seppur costantemente minacciata dal fischio degli aerei che solo i più piccoli sono in grado di sentire persino da lontano, quando l’occhio e il cuore di un adulto non se ne sono ancora accorti.

A conclusione di questa mia breve riflessione sull’incontro, vorrei aggiungere un ringraziamento doveroso all’Acli di Bergamo che, come ogni anno, ha proposto una serie di ricchi eventi che spaziano tra moltissime tematiche e promuovono campagne di sensibilizzazione, dando l’opportunità, come quella di ieri sera, di ascoltare e lasciarsi toccare da testimonianze dirette e preziose.

Conoscere la realtà del mondo che ci circonda, seppur talvolta emotivamente difficile, è un obbligo a cui non dovremmo mai sottrarci.

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