A cura di Stefano Fogliata
« Ce que je sais de la morale, c’est au football que je le dois… ».
In un’intervista apparsa sulla rivista sportiva dell’università di Algeri frequentata da giovane, Albert Camus ricordava in questo modo il passato da portiere tra i ranghi del Racing Universitaire Algerios (RUA) junior team. Un’avventura stroncata a 17 anni da una tubercolosi che, tenendolo lontano dalla polvere dei campi di gioco, contribuì involontariamente alla conquista del Nobel per la letteratura pochi anni dopo. Parliamo della fine degli anni Cinquanta, e di certo non sono esordito con quest’aneddoto per parlarvi di letteratura. Partiamo invece dall’Algeria e dalla sua “nazionale clandestina” di calcio che contribuì a rovesciare le sorti della storia.
Il 1958 (anno successivo al Nobel di Camus) è l’anno dei Mondiali di Svezia, quelli che vedranno l’ascesa alla ribalta globale del diciassettenne Pelé. Tra le fila della Francia non rispondono alla convocazione Mustapha Zitouni e Rachid Mekloufi: insieme a una decina di altri calciatori professionisti algerini, fecero perdere le tracce il 13 aprile per ricomparire qualche giorno dopo al confine tra la Tunisia e l’Algeria. Nascerà da questa diserzione la Nazionale algerina, che da quel momento si avventurerà in una tournée internazionale come ambasciatrice del Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) a favore della lotta d’indipendenza algerina. Qassaman, l’inno suonato in occasione delle partite della squadra, diventerà poi l’inno ufficiale dell’Algeria indipendente dal 1962. Durante gli anni di guerra civile, la FIFA- sotto l’egida dei paesi del Blocco Occidentale- escluse la nazionale algerina da ogni competizione, squalificando le selezioni che accettavano di giocare contro Mekloufi e compagni. Ottenuta l’indipendenza, la nazionale di calcio fu utilizzata dalla nuova classe politica algerina come simbolo di un’Algeria socialista e nazionalista uscita dall’impasse del passato coloniale.
Rachid Melkhloufi
Se sono rimasti nella storia la Mano de D10S nel 1978 dedicata da Maradona alla vendetta per la guerra delle Islas Malvinas, oppure incidenti fratricidi in Stella Rossa- Dinamo Zagabria alla vigilia della guerra dei Balcani, l’incredibile esperienza algerina è forse l’episodio più rilevante dell’annosa correlazione calcio-politica in grado di trascendere il contesto geografico “euro-americano”. Eppure, se ci riferiamo agli ultimi anni, in nessun’area come quella nella regione mediorientale e nordafricana assistiamo al susseguirsi di faccende calcistiche espressamente legate alla definizione di un’identità comune da parte di calciatori e tifosi, spesso in opposizione ad altri gruppi.
Come per la selezione algerina, gli avvenimenti all’interno degli stadi campi risultano spesso essere indicatore e premonitore di eventi futuri attraverso due direttrici: la chiave securitaria e quella di contestazione dello status quo. Come sostiene James M. Dorsey nel suo nuovo libro “The turbulent World of Middle East Soccer”, come le Primavere Arabe i tifosi sono emersi come un attore chiave non religioso, un’istituzione non governativa in grado di confrontarsi con successo verso regimi oppressivi e militanti islamisti.
In questo scenario, l’Egitto fa la parte da padrone: le proteste anti-governative contro Mubarak prima e Al-Sisi hanno trovato nel corso degli anni un punto di riferimento imprescindibile nelle principali tifoserie organizzate egiziane. Una tensione continua tra contestazione e nuove politiche repressive che matura all’interno di spazi pubblici- gli stadi- difficili da controllare da parte dell’autorità. Ed è proprio all’interno di uno stadio il 2 febbraio 2012 che questa tensione raggiunge l’apice a Port Said, dove 74 tifosi vengono uccisi in circostanze che- seppur ancora da chiarire- tirano direttamente in ballo le forze di sicurezza egiziane. Se in Egitto il campionato di calcio è sospeso a seguito di questi scontri, nella Siria attraversata dal conflitto civile gli stadi pullulano di nuove attività.
Non ci riferiamo alla nazionale siriana, che continua imperterrita nel suo positivo cammino di qualificazione verso Russia 2018. Prendendo l’esempio del padre Hafez, che nel 1982 aveva riconvertito lo stadio di Hama in un centro di detenzione di massa per reprimere- uccidendo più di 10.000 persone- una sollevazione popolare da parte dei Fratelli Musulmani, il figlio Bashar al-Assad a partire dai primi mesi della Rivoluzione riconverte lo stadio di Latakia in una base militare e centro di detenzione e tortura per centinaia di oppositori.
Stadi svuotati di tifo e riconvertiti in teatri dell’orrore: una tragica consuetudine già vissuta nel Cile di Pinochet e in Libano durante la guerra civile. Se vogliamo scrollarci di dosso il tetro che accompagna immancabilmente le cronache di questa regione persino quando si parla di calcio, non ci resta che ritornare in quell’Algeria con cui abbiamo esordito.
Algeri- 17 febbraio 2016: Stadio (ironia della sorte) 5 Julliet 1962. Più di 80mila persone affollano le tribune per assistere ad una partita della nazionale olimpica algerina. In palio non c’è la Coppa del Mondo e in campo non gioca la Nazionale che nel 2014 ha sfiorato il colpaccio contro la Germania (poi campione del mondo) negli ottavi di finale dei mondiali brasiliani. Si sfidano invece in un match amichevole le nazionali olimpiche di Algeria e Palestina, con gli spalti pervasi da un’atmosfera elettrica, dominati dallo sventolio di bandiere della squadra ospite sventolate dagli algerini. “Non ho mai sentito un boato così forte per un gol dell’Algeria” avrà modo di dire un amico nel commentare il gol dell’1-0 definitivo a favore della Palestina.
La reazione di fan algerini e palestinesi durante un’amichevole tra Palestina e la squadra olimpica algerina allo stadio 5 Juillet 1962 stadium ad Algeri, Algeria 17 Febbraio, 2016. REUTERS/Ramzi Boudina.
Tralasciando l’attendibilità di tale risultato, la domanda resta: che ci fa la Palestina con una squadra nazionale nell’arena del calcio internazionale? La parabola della nazionale palestinese suona come amaramente inversa rispetto alla gloriosa selezione algerina del FLN. Mentre Makhloufi e soci furono osteggiati dalla FIFA fin dopo l’indipendenza raggiunta dal Paese, quel mosaico di territori occupati e/o controllati dispone invece dal 1998 di una squadra nazionale riconosciuta a livello internazionale.
La Palestina diventa quindi la prima nazione senza uno Stato ad ottenere l’affiliazione con la FIFA, raggiungendo l’apice sportivo con la qualificazione alle fasi finali della Coppa d’Asia disputatasi in Australia nel 2015. Quello dell’affiliazione sui generis con la FIFA non è invero l’unico primato per la squadra palestinese: potremmo dedicarle ad honorem anche quello di unica nazionale dipendente da un’altra federazione. Parliamo della “Degna” rappresentante di uno Stato che, oltre ad occupare buona parte del territorio altrui vessandone gli abitanti, arresta arbitrariamente calciatori (ricordiamo qui lo sciopero della fame nelle patrie galere israeliane del calciatore Mahmoud Sarsak), impedisce i trasferimenti tra Gaza e West Bank di atleti e materiali, distrugge strutture sportive e che, sempre a Gaza, falcia quattro bambini intenti nel pericoloso gioco del calcio sulla spiaggia.
Forte di curriculum in piena linea (?) con i valori di solidarietà insegnati ad ogni bambino alle prese con l’esordio di qualsiasi disciplina sportiva, Israele fa parte partire dal 1998 dell’UEFA, la federazione calcistica europea. In questo caso, tralasciando alcuni dubbi legittimi geografici ancora prima che etici, con l’entrata nell’UEFA di Israele il calcio- mutuando le parole di Dorsey- non fa altro che “svelare” e in questo caso legittimare l’effettivo progetto coloniale di stampo europeo idealizzato dal sionismo di fine Ottocento.
Pochi mesi fa hanno (giustamente) fatto scalpore le immagini di alcuni fascisti italiani catturati nel mostrare il saluto romano durante la partita tra gli Azzurri e la nazionale israeliana. Non sono certi atti come questi che ridanno dignità a un mondo sempre più- soprattutto in Europa- marginalizzato dalle élite culturali produttrici di sapere, banalizzato da gran parte della sinistra e lasciato quindi in mano alla parte più oscurantista e reazionaria della società. Con buona pace di Pasolini, Camus e del buon Eduardo Galeano che nel suo celebre Splendori e miserie del gioco del calcio dice: «Il disprezzo di molti intellettuali conservatori si fonda sulla certezza che l’idolatria del pallone è la superstizione che il popolo si merita. […] In cambio, molti intellettuali di sinistra squalificano il calcio perché castra le masse e devia la loro energia rivoluzionaria».
Se vogliamo salvarci in corner per l’ultima volta, ci dobbiamo ulteriormente rituffare nel bianco e verde. In questo caso il binomio non ha nulla a che vedere con l’Algeria degli Anni Cinquanta e del 2016, ma si rifà ai colori sociali di una squadra che della lotta all’oppressione ha fatto un cardine imprescindibile.
18 agosto 2016- Celtic Park di Glasgow: in campo i padroni di casa del Celtic sfidano per la qualificazione ai gironi di Coppa Campioni gli israeliani dell’ Hapoel Be’er Sheva, incubo a breve dei tifosi interisti. In barba alle diffide di quell’organismo integerrimo che risponde al nome di UEFA, la tifoseria del Celtic colora le tribune con centinaia di bandiere palestinesi. Poche settimane dopo saranno i tifosi bianco-verdi del Sant’Etienne a ripetere la manifestazione durante il match contro i fascistoidi tifosi del Beitar Jerusalem. Pur non essendo il primo in ordine di tempo, la mobilitazione del Celtic Park ha avuto una partecipazione diffusa e popolare, contribuendo a propagare un’onda d’urto in grado di spaziare oltre le tribune scozzese. In segno di protesta nei confronti delle sanzioni dell’UEFA, i tifosi del Celtic hanno rilanciato, mobilitandosi in una campagna social con l’hashtag #MatchFineForPalestine, con l’intento di raccogliere fondi per aiutare due associazioni umanitarie che operano nei territori occupati. In poco più di due settimane sono state raccolte di 100.000 sterline a favore del Medical Aid for Palestine e del Lajee Centre, un progetto che ha come obiettivo quello di sostenere, attraverso lo sport, i bambini del campo profughi di Aida, Betlemme.
Il messaggio è chiaro, ed è tinto di quel verde che colora i campi da gioco così come le tribune algerine e scozzesi: Giù le mani dal calcio!
Ridatemi il mio pallone! Grazie.
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