A cura di Federica Facchinetti
Siamo talmente assuefatti dai discorsi su migranti e richiedenti asilo che si presentano alle nostre frontiere che spesso l’unica cosa che ci sentiamo in grado di dire di fronte alle quotidiane notizie è “basta”. Ed invece rieccomi a tornare sull’argomento, ad insistere per ridimensionare la portata della nostra esperienza, per spostare lo sguardo dal nostro ombelico e rimetterci in un contesto globale. Per saperne di più >>>
Senza dilungarmi in numeri o invettive, vorrei oggi semplicemente raccontare la storia di un popolo che mai si sente nominare, e di un’area che raramente si cita parlando di profughi e accoglienza. Mi riferisco al Bangladesh, piccolo e popolatissimo Stato asiatico che di solito si associa a disastri ambientali, fabbriche tessili e sfruttamento del lavoro minorile. Dovete sapere che in Bangladesh è presente una minoranza di lingua Urdu (quindi etnicamente legata all’attuale Pakistan) nota come Bihari.
Al momento della secessione dall’India, si formò il Pakistan, suddiviso in una parte occidentale e in una orientale. Essendo uno stato unico, la popolazione musulmana dell’India migrò nell’una o nell’altra parte con criteri essenzialmente di vicinanza geografica, non pensando che pochi decenni dopo, nel 1971, il Pakistan orientale si sarebbe ulteriormente separato con una sanguinosa guerra, diventando così Bangladesh. Per saperne di più >>>
Ecco che allora i pakistani che originariamente provenivano dalla regione indiana del Bihar e del West Bengali, si trovarono ad essere in Bangladesh.
Da subito il Bangladesh si adoperò in per organizzare il rimpatrio in Pakistan dei bihari – parliamo di circa 300 mila persone – che vennero così temporaneamente sistemate in oltre 116 campi sparsi su tutto il territorio nazionale, costruiti su indicazione della Croce Rossa internazionale, per ragioni di sicurezza, dato che i bihari si erano opposti all’indipendenza del Bangladesh durante la guerra del 1971, ed erano per questo poco accettati. Il governo pakistano con altalenanti fasi determinate dal clima politico interno, dalle pressioni internazionali e regionali, dai fragili accordi bilaterali, dai fondi economici disponibili, si è reso disponibile ad accogliere un minimo numero delle persone “temporaneamente” allocate nei campi in Bangladesh, fino ad arrivare ad un totale stallo che dal 1993 continua fino ad oggi.
Ricapitolando, stiamo parlando di una minoranza che da oltre 40 anni vive in campi profughi inizialmente pensati come temporanei. Significa che ad oggi almeno tre generazioni si trovano a convivere in uno spazio che non è mai aumentato con il crescere della popolazione, con servizi igienici inadeguati e condizioni ai limiti dello stento. I bihari soffrono infatti di severe discriminazioni sociali, culturali, economiche, così come di accesso all’educazione pubblica o ad impieghi statali, per non parlare delle abitazioni al di fuori del campo, che sempre hanno prezzi insostenibili per famiglie che sono fortemente impedite nell’accesso al mercato del lavoro. Il risultato è chiaramente il dilagare del settore informale, una situazione perennemente precaria e instabile.
La situazione legale dei bihari è molto controversa, poiché da un punto di vista del diritto internazionale essi non sono considerabili “rifugiati”, in quanto non si sono mai allontanati dal loro territorio nazionale, nemmeno possono essere chiamati “minoranza”, poiché non sono considerati parte della popolazione bengalese. Sta di fatto che hanno una forte identità etnica e che si trovano al di fuori di quello che loro riconoscono come il loro Paese di appartenenza. Da un punto di vista di organizzazione politica, i bihari vivono al loro interno una scissione, che ha le fattezze di un conflitto generazionale. Tutta la fascia della vecchia generazione è ancora fortemente legata all’idea del rimpatrio in Pakistan e trova una sua forma organizzata nello SPARC (Stranded Pakistani General Repatriation Camp) che dal 1977 si batte per questo “diritto al ritorno”.
Dall’altro lato più del 60% dei bihari, specialmente i giovani, reclamano una cittadinanza bengalese a tutti gli effetti con un pieno godimento dei diritti, anche a fronte del fatto che la maggior parte di loro non ha alcun tipo di legame con quello che è l’attuale Pakistan. Questo Committee for Rehabilitation of Non-Bengalis ha portato avanti numerose campagne per i diritti, arrivando nel 2008 ad ottenere che la popolazione bihari, dopo oltre 40 anni di apolidia ( Per saperne di più >>> ) e non riconoscimento, fosse inclusa nelle liste elettorali e avesse diritto alla cittadinanza bengalese. Ma purtroppo è necessario constatare che la situazione di discriminazione e intolleranza, nonché la possibilità di accesso ai diritti di base non è migliorata. Essi infatti ancora oggi hanno grosse difficoltà a vedersi riconosciuta la cittadinanza, così come ad ottenere il rilascio del passaporto o il certificato di nascita.
La difficile posizione da un punto di vista legislativo li rende di fatto dei bengalesi di seconda classe, e fino a che non sarà per loro possibile togliersi il pesantissimo stigma dell’abitare in un campo profughi, sarà difficile per loro riabilitarsi come cittadini e membri di una società a tutti gli effetti.
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