Come si inserisce la figura femminile all’interno di società così complesse e diverse tra di loro come quelle mediorentali? Cosa non sappiamo della reale complessità della figura femminile in Medio Oriente? Esistono diversi Medio Oriente e differenti culture islamiche in cui la donna possiede diverse capacità di esprimersi?
La figura femminile nel mondo musulmano ha da sempre destato nelle menti del popolo occidentale alcuni particolari immaginari e preconcetti derivanti anche da una visione colonialista della storia e della civiltà. Per poter affrontare al meglio un discorso così complesso come quello della figura femminile in Medio Oriente è bene sgomberare la nostra mente da alcuni concetti che si sono da tempo radicati nel nostro pensiero comune.
Per prima cosa la realtà femminile mediorientale non può essere letta e studiata uniformandola all’intera area. All’interno delle stesse culture mediorientali esistono diverse situazioni e configurazione di donna sia in campo politico che economico ma anche sociale e culturale; certamente diversi dagli standard euro-occidentali. Spesso l’idea comune della nostra parte del mondo sulla donna musulmana è legata ad un’idea di oppressione; infibulazione, obbligo di indossare il burqa, non avere libertà di circolazione e altri immaginari.
Nella cultura islamica non esiste nessuna dottrina ufficiale che faccia riferimento a queste pratiche. È vero anche che la donna mediorientale non gode di tutte quelle prerogative di autonomia che sono invece riconosciute come ovvie nei paesi occidentali e che la pongono, giuridicamente, sullo stesso piano degli uomini (per saperne di più consiglio la lettura di Culture in Bilico. Antropologia del Medio Oriente di Ugo Fabietti, antropologo e studioso di Medio Oriente).
Non dimentichiamoci però che anche nei nostri paesi, spesso, uomini e donne non sono sempre posti sui medesimi piani, tanto vero che esistono specifici organi e ministeri statali che si occupano di porre sullo stesso piano uomini e donne (vediamo per esempio i ministeri delle pari opportunità o la legge sulle quote rosa in Italia).
Scrive Ugo Fabietti:
“Viaggiando in Medio Oriente e raccogliendo le impressioni che i miei interlocutori si facevano del mio mondo, della mia società e della cultura occidentale in genere, non ho potuto fare a meno di notare come molte delle loro osservazioni riguardo alle donne occidentali producessero un immagine per me caricaturale, almeno all’inizio, di quest’ultime. Le nostre donne mi apparivano così come soggetti più votati ad un destino di veline, copertine e calendari che non di lavoro, impegno, affari, fatica e responsabilità. L’immagine che delle donne occidentali avevano i miei amici non era certamente veritiera, ma neppure così caricaturale come mi era sembrata in un primo momento”.
Una della questioni più discusse e complesse dei paesi arabo-musulmani che investono il sesso femminile è indubbiamente quella del velo (per saperne di più consiglio Politics of piety, the islamic revival and the feminist subject di Saba Mahamod). Va innanzitutto sottolineato che quello che in occidente viene genericamente definito come velo, nei paesi arabo-musulmani ha differenti nomi, forme e significati (hijab, haiq, chador, niqab, khimar, burqa ecc…). Non è un capo uniforme ma cambia da tipo a tipo; dal velo vero e proprio che lascia scoperto il viso, alle piccole maschere in uso in alcuni villaggi beduini, passando da un velo che lascia scoperti solo gli occhi, fino al pesante burqa indossato dalle donne di alcune comunità pasthu dell’Afghanistan e del Pakistan. Inoltre il velo possiede una varietà di significati diversi: da quello estetico a quello di contestazione, da quello seduttivo a quello protettivo.
Velo è un’errata traduzione di hijab su cui il mondo occidentale ha costruito le proprie battaglie sulla condizione delle donna nei paesi arabo-musulmani. Hijab correttamente andrebbe tradotto attraverso una perifrasi che identifica un certo stile di comportamento che fa riferimento alla modestia. Indossare e osservare l’hijab è un chiaro segnale per gli uomini che a queste donne ci si può rivolgere solo osservando a parlando alla loro anima. L’uso del velo ha permesso a molte donne di risignificare la loro presenza all’interno dell’ambiente lavorativo. Paradossale ma significativo è il fatto che le donne islamiste, velate e invocanti la shari’a sono state le prime donne a prendere parola negli spazi pubblici, fuori dalla famiglia e dall’universo domestico.
22
Si è pubblicato molto in occidente sul tema del velo, indagando poco sulla complessità e sui percorsi fatti dalle protagoniste dell’emancipazione femminile araba soprattutto per quanto riguarda la zona mediterranea (movimenti delle “donne delle moschee” sviluppatosi in Egitto). Il grande e veloce cambiamento sociale e industriale che ha investito alcune zone dell’area mediterranea ha aperto nuove possibilità per le giovani donne che hanno incrementato la loro possibilità di trovare lavoro in diversi settori, tra cui quello sanitario, dell’educazione e il meno convenzionale dei media.
Il problema principale non è quindi il velo, il quale viene usato per diverse e svariate ragioni ma bensì alcune condizioni, in alcuni luoghi, in cui le donne vivono la loro quotidianità in difficoltà; dalla difficoltà di sfuggire al matrimonio precoce, all’ineguale accesso alle cure sanitarie; dalla possibilità di trovare un lavoro per essere indipendenti fino ad arrivare all’emanciparsi da una condizione di minorità per quanto riguarda le leggi matrimoniali.
Il consiglio è quello di analizzare in modo attento e complesso la figura femminile nel contesto arabo-musulmano cercando di analizzarne ogni singola sfumatura per avere una visione il più completa possibile del fenomeno.
Libro: Saba Mahmod, Poitics of Piety, the islamic revival and the feminist subject
Luogo: Egitto, Il Cairo