E’ facile, passeggiando per le strade di Lusaka, capitale dello Zambia, rendersi conto di quanto massiccia sia la presenza cinese in Africa e di quanto il loro modello di sviluppo sia stato assorbito dal tessuto sociale. Lusaka, con 1.742972 abitanti e 24 compound, senza né elettricità né acqua corrente, vanta invece dall’altro estremo ben 20 nuovissimi centri commerciali, la cui costruzione e gestione è in gran parte opera della presenza cinese in Zambia.
Vivendo a stretto contatto con questa contrastante realtà viene da porsi una domanda, ovvero quanto la presenza cinese in Africa sia dettata solamente da un interesse economico. O meglio, la presenza cinese in Africa è riuscita a migliorare la qualità di vita delle popolazioni e, soprattutto, cosa spinge i cinesi a interessarsi allo Zambia?
La Cina, da qualche anno, è il primo partner dell’Africa: il volume d’affari ha toccato $ 198,49 milioni nel 2012 (di cui $ 85 milioni esportazioni Cinesi e $ 113 importazioni dall’Africa) con una crescita annua del 19.3%. Il petrolio africano vale il 64% dell’import cinese. Oggi in Africa si presume vivano 2 milioni di Cinesi. La Cina ha lanciato 1.673 progetti in 50 Paesi africani. Nel 2014 ne aveva già realizzati 900 con addestramento specifico di 40.000 operai africani. 2000 le aziende cinesi che operano in Africa con centinaia di migliaia di operai Cinesi.
Oltre alla presenza della China National Petroleum Corp nell’industria estrattiva delle materie prime (oro, legname, petrolio, gas naturale, rame in Sudan, Libia, Nigeria e Zambia), le imprese di costruzione cinesi stanno realizzando e sovvenzionando enormi infrastrutture:
– Algeria: 1300 chilometri di ferrovia China Railways Construction Corp;
– Kenya, Ruanda, Sudan del Sud, Tanzania e Uganda: 600 chilometri di ferrovia;
– AdisAbeba (4 milioni di persone): metropolitana con 36 fermate;
– Ghana: Diga da 1.500 mt di altezza e centrale idroelettrica $ 600 milioni, realizzata con un anno di anticipo nei 20 mesi in cui era presente l’ebola;
– Nigeria: impianto idroelettrico da 700 megawatt;
– Zimbabwe: enormi investimenti, tra cui l’accademia militare;
– Angola: realizzata nuova cittadina, 750 palazzi di otto piani. Gli appartamenti vuoti. Costo medio: € 90.000;
– Mozambico: Aeroporto, ministeri grattacieli, centri commerciali e non ultimo l’esclusivo quartiere di Polana che si affaccia sulla baia di Maputo con ambasciate, alberghi e ristoranti di lusso. Solo il palazzo presidenziale da $ 72 milioni;
– Rep Democratica. del Congo: autostrade, ospedali e altre infrastrutture.
Dal 2000 al 2014 le aziende cinesi hanno costruito 60.000 chilometri di strade, 70 milioni di chilometri quadrati di immobili e centrali elettriche pari a una produzioni di 3.5 milioni di kilowatt. Tutto questo fa affluire capitali nel paese, cioè fa statisticamente aumentare il PIL, quindi la crescita economica. Si stimano investimenti cinesi in Africa pari a $ 26 miliardi ($ 75,4 mdl dal 2000).
L’attrazione cinese per lo Zambia, è legata soprattutto alla presenza di miniere di rame, di cui il paese è l’ottavo produttore mondiale e il sesto detentore di riserve al mondo. Il rame zambiano è in realtà un po’ il simbolo di quello che è conosciuto come il ritorno della Cina in Africa. A partire dalla metà degli anni Novanta, le politiche messe in pratica da Deng Xiaoping, con l’obiettivo di stimolare l’apertura internazionale e insieme la crescita economica hanno (ri)portato la Cina a guardare anche verso l’Africa: con necessità commerciali che spingono la Cina verso paesi che da un lato possono assorbire la produzione nazionale e dall’altro possono fornire materie prime necessarie a sostenere l’esplosiva e prolungata crescita. Ecco che il rame zambiano diventa il simbolo di una relazione che molti osservatori, in alcuni casi non particolarmente equilibrati in quanto occidentali, non esitano a definire la “ricolonizzazione dell’Africa”.
Nel 1995 Pechino si rivolge a Lusaka e compra la prima di quattro miniere di rame, attraverso una compagnia statale, secondo uno schema di investimento che qualifica tutta la presenza cinese in Africa, ovvero quello dell’intervento diretto dello Stato in settori vitali per l’approvvigionamento della madrepatria. Le relazioni commerciali tra Pechino e Lusaka sono quantificabili in 2,2 miliardi di dollari nel 2011 e comprendono interessi che dal settore minerario si sono spostati all’agricoltura (gli imprenditori cinesi possiedono almeno 25 industrie commerciali nel paese), alle costruzioni, al turismo e al commercio. Nei rapporti economici Cina-Zambia si intromette ben presto la politica: le condizioni di lavoro nelle imprese cinesi, la concorrenza sleale dei prodotti made in China, che mette in difficoltà anche imprese nate nel periodo della collaborazione Cina-Zambia post-indipendenza (come la fabbrica tessile Mulungushi, che contava più di mille operai negli anni Settanta e che ha dovuto chiudere nel 2010 a causa della competizione con i prodotti cinesi) e la presenza non quantificata di numerosi lavoratori cinesi che si danno da fare anche in ambiti tradizionalmente occupati dalla manodopera locale, alimentano un sentimento di risentimento anti-cinese, che ben presto sconfina nella retorica politica.
Anche Serge Michel, giornalista e reporter per Le Monde, nel suo saggio Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, fa riferimento al caso Zambia. Secondo la sua indagine gli obiettivi dei cinesi sarebbero, in primo luogo, quello di avere il controllo sulle miniere, stipulando accordi con la classe dirigente Zambiana promettendo in cambio sviluppo delle infrastrutture locali di cui il paese necessita e secondariamente di fare cospicui investimenti che permetterebbero al paese una crescita economica. Questo però in molti casi non accade e spesso tutto si riduce a sfruttamento delle risorse del paese e della manodopera locale a basso costo. In un’intervista lo stesso Serge Michel afferma che “moltissimi Cinesi vogliono andare in Africa per far fortuna. In Europa a nessuno passa per l’anticamera del cervello. L’Europeo a causa del passato colonialista, delle dittature post colonialiste sostenute dai paesi europei, dello sfruttamento delle risorse e dell’oppressione senza aver mai creato lavoro non è certo visto di buon occhio, mentre i Cinesi sì. Inoltre hanno in comune una forte carica energetica di cui non si può certo dire spicchi l’Europa. I Cinesi arrivano in Africa con voglia di crescere e l’Europa è tagliata fuori. In Africa troviamo due tipi di cinesi: i pionieri che migrano per far fortuna e gli operai delle imprese governative. I primi migrano perché in Africa possono guadagnare più che in Cina. Non temono il caldo, il cibo, le malattie. La capacità di adattamento cinese è straordinaria. Inoltre gli studenti cinesi non vanno a imparare in Africa, però quando migrano apprendono molto velocemente“.
Le domande da porsi sono molte e rimangono aperte: il modello cinese funziona? E, se funziona, porta benefici a tutti e, in particolare, alla già sofferente popolazione locale?Oppure tutto questo è una forma di neo-colonialismo?
Consigli di lettura per approfondire
SergeMichel e Michel Beuret, Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero