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Appunti di Cooperazione Internazionale

La luna a Beirut, un aereo a Fiumicino

A cura di Stefano Fogliata

“ Ste’, ma lo sai che Operazione Colomba sta lavorando per fare dei corridoi umanitari dal Libano all’Italia?” mi diceva pochi mesi fa un amico italiano che studia in Libano e che aveva preso contatti con l’organizzazione. Stavo in Libano da diverso tempo e, lavorando a cavallo tra la cooperazione internazionale e la ricerca accademica, d’idee come queste ne avevo viste passare e sentite scemare a bizzeffe. Ci s’interrogava spesso con amici sull’apparente impossibilità di muoversi fuori dai classici binari umanitari da “sistema-paese ONG” di cui il Libano è divenuto un prototipo negli ultimi anni. Sulla fattibilità di un’operazione complicata come un corridoio umanitario, che presuppone il beneplacito di diverse istituzioni su molti livelli per realizzarsi, non ci avrei scommesso un centesimo. Devo aver pensato: “Figurati. In questo paese io che sono un “paraculo raccomandato” fatico a rinnovare un permesso di soggiorno e loro riescono a far volare in Italia decine di rifugiati siriani che sono nel Paese senza visto e senza passaporto?”.

Da parte mia, escludendo una birra condivisa in un pub di Beirut mesi addietro, avevo conosciuto Operazione Colomba in Palestina in uno storico episodio che ha rischiato di cambiare per sempre le sorti del calcio italiano. Il tutto si svolge verso la fine del 2010 in una località che col pallone ha ben poco a che fare: at Tuwani, uno dei tanti piccoli villaggi palestinesi sulle colline a sud di Hebron asserragliati dai coloni sionisti dove i “colombini” scortano studenti e pastori minacciati dalla violenza degli occupanti. Come succede in ogni buon villaggio che si rispetti, la nostra visita ai ragazzi di Operazione Colomba si trasforma nella classica partitella di calcio tra i palestinesi ed il “resto del mondo”. Al fischio finale, At Tuwani 3 – Italia 2, con tanti saluti alla propria credibilità in tutti i villaggi palestinesi nel raggio di 50 chilometri.

Di molti più chilometri parliamo oggi che i corridoi umanitari sono diventati realtà, grazie all’iniziativa promossa da Diaconia valdese e Comunità di Sant’Egidio, con la collaborazione dell’ong Mediterrenean Hope. Buona parte delle 24 famiglie siriane giunte a Fiumicino il 29 febbraio vivevano in un piccolo campo informale di Tel Abbas, nel nord del Libano a pochi chilometri dal confine con la Siria. E tra le tende di Tel Abbas i volontari di Operazione Colomba vivono da più di un anno tra gli stessi rifugiati, e proprio da questo contesto hanno coordinato le operazioni in loco per i corridoi umanitari.

Quei quattro chilometri che separano Tel Abbas da quella che era la Siria si sono tramutati oggi nei 2500 percorsi da Beirut all’aeroporto di Fiumicino. Novantatré persone sono partite da Beirut e sono arrivate in Italia in 3 ore. Esatto, non ci sarebbe nulla di strano in tutto ciò: è lo stesso volo Alitalia che io, e come me migliaia di persone, ho preso diverse volte nella spola tra casa e il Libano. Sennonché quello di oggi è un’enorme novità non per l’atto in sé, ma perché si colloca in un sistema fossilizzato, arroccato su frontiere e barriere fisiche (e non) di ogni genere nei confronti di chi ha un passaporto “altro”, o di chi dietro le spalle uno Stato nemmeno ce l’ha. Niente viaggi a pelo d’acqua in un mare che ne ha già inghiottiti a migliaia, niente chilometri macinati a piedi in un gioco dell’oca iniziato anni prima e dipanato attraverso reti e barriere. Il corridoio umanitario è razionale, ancora prima che umano. E le ragioni di quest’affermazione le ritrovo nelle parole di Ahmad, un signore siro-palestinese incontrato un anno fa nel nord del Libano:

“Ho un figlio che da qui è andato in Sudan, per poi andare in Libia e raggiungere l’Italia. Ora è in Libia e aspetta di andare in Italia. Se potessi andare ora, lo raggiungerei. Qui non c’è alcun modo di vivere. Inizi a pagare da quando passi il confine qui! Non ne possiamo piú qui: chi cerca di andarsene in mare muore pure durante il viaggio. Ma qui non ci possiamo più stare. Non appena recupero i soldi, parto pure io. Ho già il visto per il Sudan: prenderò un aereo per il Sudan, da lì attraverserò il Sahara per andare in Libia. Poi il mare per arrivare in Italia. Da lì forse vado in Germania. Voglio andarci, ma devo recuperare i soldi. Ho paura del viaggio e di passare giornate in mare. Perché l’Italia non apre le porte? Tanto ci andiamo comunque!”.

E le parole di Mahmoud sono quelle delle decine di migliaia di persone ancora oggi in viaggio lungo il nuovo gioco dell’oca, che stavolta ha un profumo meno mediterraneo e più balcanico, con il fango e la repressione della polizia a fare da contraltare a quanto prima erano il deserto e il Mediterraneo. Dall’aeroporto di Beirut, Sara, una delle tante persone che si è adoperata per questo corridoio umanitario, nell’immediata vigilia della partenza del convoglio per Roma commentava: “La luna sorride a Beirut. Oggi in qualche modo si sta facendo un pezzo di storia”. Non so quanto quest’avvenimento – unico nel suo genere in tutto il panorama europeo – resterà nella memoria collettiva di noi italiani. L’arrivo di queste persone in un aeroporto ha richiamato l’attenzione di buona parte dei media, quasi sorpresi e per questo “a disagio” di fronte ad una situazione che non ha nulla di eccezionale come gli sbarchi o i naufragi nel Mediterraneo raccontati durante gli ultimi anni.

Un banalissimo volo aereo ha il potere intrinseco spiazzante nei confronti dei nostri immaginari ancora legati all’assonanza tra le parole “rifugiato” e “Lampedusa”, riuscendo in tre ore a infrangere più barriere fisiche e mentali di quanto elaborato in Italia rispetto al fiorire della primavera in Nord Africa e Medio Oriente. Se la portata e la sostenibilità dei corridoi umanitari potranno essere valutati solo nel lungo periodo (quasi 1000 persone dovrebbero arrivare nei prossimi tre anni da Libano, Marocco ed Etiopia), la realizzazione di questa prima piccola “impresa” non può che innescare molteplici domande, in primis a quella parte di società civile che da anni lavora a vario titolo nell’ambito delle migrazioni, partendo inizialmente dalla questione legata alla presenza internazionale in Medio Oriente. A proposito del lavoro di attivisti e ONG europee in Palestina a margine della presentazione del suo nuovo lavoro, il regista palestinese Muyad Alayan commenta: “Vedete, collaborare con gli europei per noi è quasi una necessità economica ed è in teoria una buona cosa. Il problema sta nel fatto che, una volta iniziata la collaborazione, gli scandinavi vogliono dare priorità alla parità di genere, gli italiani vogliono fare impresa, i francesi insistono sull’arte e la cultura. Tutte cose nobilissime, ma che non c’entrano nulla con le priorità di chi quei territori li vive tutti i giorni”.

La reale effettività della cooperazione internazionale è un argomento di cui si torna a discutere quando si ripropongono episodi di infrastrutture inutili, coperte invernali distribuite subito terminato l’inverno e raccolte fondi dirottate alle Bahamas. Andando oltre ai singoli episodi che non possono e non devono demistificare il lavoro delle centinaia di organizzazioni impegnate sui vari fronti del mondo, credo che tutti gli operatori nel settore concordino sulla necessità di un reale ri-orientamento delle politiche e delle pratiche legate alla cooperazione internazionale. In questo discorso, il successo del primo corridoio umanitario ci riporta alla necessità di focalizzarci su un approccio più legato a quelle che sono le reali necessità e aspirazioni delle persone con cui (?) lavoriamo. E sono proprio lavori “dal basso” imperniati sul quotidiano, come quelli portati avanti da Operazione Colomba in Libano, che possono fornirci nuove direzioni e immaginari.

Immaginari che oggi per centinaia di migliaia di siriani in Libano sono in gran parte orientati verso nuove migrazioni in Europa organizzati per strada e nei mezzi pubblici. Ricordo come proprio su un pullman di linea mi ritrovavo accanto ad un ragazzo siriano il cui volto era coperto da una stufa ingombrante che portava sulle ginocchia. Ed è proprio da un episodio apparentemente banale legato alla stufa che trae nuova linfa e legittimazione il lavoro dei corridoi umanitari raccontati in precedenza. “Ascolta – mi dice Yasser, il ragazzo in questione – siamo qui da tre anni e a ogni inverno chiediamo alle associazioni una stufa e delle coperte. E sai perché? Ad ogni scorcio di primavera, quando le temperature si alzano, vendiamo le stufe e le coperte per pagare l’affitto della tenda, convinti che il prossimo inverno non saremo più qui in Libano. Ce ne vogliamo andare tutti da questo museo.”
Che oggi sia un giorno di festa e di ispirazione per tutte e tutti!
“Ahlan wa Sahlan”: Benvenuti in Italia!

Fotografie: www.operazionecolomba.it

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Questa voce è stata pubblicata il 4 marzo 2016 da in Esperienze sul campo/Reportage con tag , , , , , .
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