In un’intervista televisiva del 2004, il presidente G. W. Bush ha usato per 22 volte la parola terrorismo, senza che gli fosse stata rivolta alcuna domanda sull’argomento. Ma l’amministrazione Bush è, com’è noto, quella che ha dichiarato the war on terror: nessuna sorpresa che la sua retorica insistesse tanto sulla minaccia terroristica. Cosa dire invece del presidente Obama, accusato da più parti di una certa riluttanza ad utilizzare il termine terrorismo? Secondo il blog statunitense Smart Politics, Barack Obama avrebbe impiegato questa parola (o sue varianti) 1469 volte dall’inizio del proprio mandato, nel 2009, fino all’aprile 2013, con una media di una volta al giorno.
Il terrorismo sembra dunque uno dei “temi caldi” del nostro tempo, dominando i discorsi politici e i titoli dei media globali, nonché la riflessione interna alle nostre società. Ma cosa sappiamo effettivamente del terrorismo e, soprattutto, cosa non sappiamo? Sappiamo poco, per esempio, di ciò che succede al di fuori dell’Europa o degli Stati Uniti, e questo distorce l’idea che ci facciamo del terrorismo e le nostre reazioni. Ci trinceriamo dietro muri (sempre più letteralmente), ignorando che la globalizzazione del terrore richiede una cooperazione rafforzata, non un approccio da tre porcellini.
Il terrorismo è un fenomeno complesso, che non può e non deve essere affrontato solo a suon di slogan politici. Una corretta comprensione del suo impatto, della natura dei gruppi terroristici e dei loro obiettivi, dei fattori socio-economici e geopolitici che ne provocano l’insorgere è indispensabile per elaborare una risposta sensata ed efficacie, che non si risolva nella semplice disapplicazione dei diritti di cittadini e stranieri. Questa la logica alla base della riflessione dell’Institute for Economics and Peace (IEP), fondato nel 2007 con l’obiettivo di rinnovare l’approccio tradizionale ai temi di sicurezza, difesa, terrorismo e sviluppo. In particolare, l’analisi dello IEP si fonda sull’utilizzo di dati relativi al terrorismo, aggregati e interpretati con l’obiettivo di stimolare un dibattito informato sul futuro del terrorismo e sulle risposte politiche necessarie. Come strumento di questa riflessione, lo IEP ha sviluppato il Global Terrorism Index, uno studio che prende in considerazione l’impatto del terrorismo in 162 paesi, coprendo il 99,6% della popolazione mondiale. Per saperne di più >>>
L’attività terroristica è aumentata dell’80% nel 2014, anno record con più di trentamila morti; si calcola che nel corso del quindicennio 2000-2015 il numero di persone decedute a causa di attività terroristiche sia aumentato di nove volte. Per quanto riguarda le organizzazioni responsabili di tale violenza, potrà stupire il fatto che il più letale gruppo terroristico al mondo non sia l’ISIS ma, se pur con uno scarto ridotto, Boko Haram; i due gruppi sono cumulativamente responsabili per quasi tredicimila morti nel solo 2014. Per sapere di più >>>
La violenza terroristica si presenta diffusa in modo non uniforme nel mondo. Circa il 60% dei paesi presi in esame non ha assistito, nel 2014, ad alcun attentato con conseguenze mortali, anche se la maggior parte degli Stati ha subito attacchi terroristici di qualche genere. L’attività terroristica appare infatti fortemente localizzata, con tre quarti degli attacchi concentrati in soli cinque paesi: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Syria. Per quanto riguarda l’Iraq, il numero delle vittime ha subito una crescita esponenziale con l’invasione del 2003, per poi diminuire a partire dal 2007; l’avvento dell’ISIS nel 2013 ha riportato il paese ai livelli pre-2007. L’intensità del terrorismo ha raggiunto nel 2014 in Iraq il valore massimo mai osservato in un paese nell’arco di un solo anno (quasi diecimila morti).
Il paese dove si è registrato il maggiore aumento della violenza terroristica è la Nigeria, sul cui suolo operano due tra i più letali gruppi terroristici, Boko Haram e i militanti Fulani. Per quanto riguarda l’ISIS, pur essendo il secondo gruppo terroristico per numero di vittime il suo potenziale letale si manifesta soprattutto sui campi di battaglia, dove è stato stimato essere responsabile di almeno 20.000 morti. Per saperne di più >>>
Gli ultimi quindici anni sono stati testimoni di numerosi e terribili attacchi terroristici in paesi occidentali. Pur riconoscendo questo fatto, il rapporto sottolinea nondimeno come la maggior parte delle morti conseguenti ad attività terroristiche abbia avuto luogo al di fuori di questi paesi; secondo i dati presentati, infatti, nel 2014 “solo” lo 0,11% delle vittime del terrorismo ha trovato la morte in attacchi perpetrati in Europa, USA, Canada o Australia. Tra il 2006 e il 2014 quasi i tre quarti delle attività terroristiche nei paesi occidentali sono stati condotti dai cosiddetti lone wolves, individui che attaccano per sostenere un gruppo, un movimento o un’ideologia da cui non ricevono ordini né assistenza. Per saperne di più >>>
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è stato il fondamentalismo islamico a costituire fino al 2014 la più significativa causa di terrorismo, ma l’estremismo politico. In particolare, nessuno dei tre più gravi lone wolf attacks del periodo (Norvegia 2011, Texas 2009, Olanda 2009), responsabili per un numero complessivo di 97 vittime, si è ispirato ad al-Qa’ida o ISIS. Il terrorismo appare uno dei fattori alla base del crescente movimento di persone – all’interno o all’esterno dei confini nazionali – in fuga da situazioni di insostenibile violenza. In particolare, è interessante osservare come, tra gli undici paesi con più di 500 morti per terrorismo nel 2014, dieci mostrino anche i più alti livelli di rifugiati e sfollati interni.
Il terrorismo è dunque una delle cause delle migrazioni forzate; ne è anche una conseguenza? Il team di ricerca IEP dà una risposta negativa a questa domanda. Pur sottolineando, infatti, come le condizioni di degrado e insicurezza troppo spesso associate alla vita nei campi profughi facciano di questi ultimi un terreno potenzialmente fertile per il terrorismo, il rapporto 2015 smentisce l’ipotesi di una corrispondenza tra alto numero di rifugiati e violenza terroristica. Ad essere portato ad esempio è il caso tedesco; a fronte di un numero di rifugiati tra i più alti in Europa, il paese non ha infatti subito attentati terroristici mortali dal 2007. Il terrorismo non può essere considerato indipendentemente dalla più generale situazione di sicurezza e conflittualità di un paese. La quasi totalità (92%) delle attività terroristiche tende infatti a concentrarsi in paesi con elevati livelli di terrore politico perpetrato dallo Stato e di conflitti violenti, mentre solo lo 0,6% degli attacchi tra il 1989 e il 2014 ha coinvolto paesi non afflitti da nessuno di questi due fattori.
Se la varietà di impulsi – a livello personale, sociale, nazionale – alla base dei fenomeni terroristici rende difficile generalizzare, il rapporto individua tuttavia alcuni fattori, radicati nella storia e nel livello di sviluppo dei diversi paesi, che presentano una correlazione statistica con l’insorgere del terrorismo. Basandosi sulla suddivisione tra paesi OCSE e paesi non-OCSE, si sottolinea come in questi ultimi la violenza terroristica tenda a manifestarsi in correlazione con conflitti, corruzione, debole sviluppo e una storia radicata di violenza interna alla società. Per quanto riguarda i paesi OCSE, a prevalere in correlazione al terrorismo sono invece nella maggior parte dei casi fattori socio-economici. Tra i più significativi, percezione negativa dell’immigrazione, alta disuguaglianza di reddito, facile accesso ad armi di piccolo calibro, alta disoccupazione giovanile e scarsa fiducia nella democrazia.
Nonostante queste differenze, riflesse nella diversa natura dei fenomeni terroristici nelle due categorie, ci sono fattori che mostrano ovunque una importante connessione con il terrorismo. Violenza di matrice statale, mancanza di sicurezza, instabilità politica, ma soprattutto gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale prescindono infatti dalla ricchezza di un paese, andando a costituire in ogni società la linfa di nuove derive terroristiche. Una considerazione, quest’ultima, che andrebbe tenuta a mente al momento di elaborare nuove strategie di lotta al terrorismo, così da evitare di dare inizio all’ennesimo circolo vizioso di violenza.