A cura di Federica Facchinetti
L’Islam è al centro del dibattito politico e delle retoriche mediatiche da ormai una quindicina d’anni a questa parte. Nonostante ciò è interessante notare quanto ancora questo credo religioso sia coperto da un velo di mistero, come se ci sia qualcosa di inafferrabile o incomprensibile. Una conoscenza dell’Islam si è diffusa e approfondita in ambito accademico, a partire da uno spirito orientalista, ma non si è mai divulgata, lasciando la maggior parte delle persone nelle mani-manipolatrici dei media e di quanto questi ultimi decidano di trasmettere e far passare.
Il risultato è un calderone di (dis)informazioni confuse, spesso poco attendibili e tendenzialmente di parte, di stereotipi, immaginari collettivi preconfezionati e che difficilmente riescono ad essere decostruiti. Proprio i media, che hanno di per sé la responsabilità dell’informazione, contribuiscono a creare confusione a partire dal lessico utilizzato, sovrapponendo indiscriminatamente termini quali arabo, musulmano, immigrato, terrorista, straniero.
Leggendo alcune notizie relative a fatti di cronaca, è possibile notare come se in qualche modo una persona di cultura araba o di religione musulmana (e chiaramente, quale dei due non fa alcuna differenza) è coinvolta, questo attributo viene sempre sottolineato ed evidenziato, come caratteristica rilevante che ha avuto un ruolo centrale nella determinazione delle azioni dell’autore; quando invece lo stesso gesto è compiuto da un altro individuo difficilmente viene connotato religiosamente, ma si parla invece di criminale, malato mentale, pazzo. Vorrei portare due esempi recenti in riferimento ai fatti del 13 novembre di Parigi, solo per questioni cronologiche, nella triste certezza che scavando poco più a fondo e andando poco più indietro, potremmo trovare molti altri episodi sulla stessa scia.
All’indomani degli attacchi di Parigi su tutte le testate si trovava la notizia di un passaporto siriano trovato nei pressi del luogo degli attentati, da cui l’infinita polemica sui “profughi-terroristi”, “l’Isis arriva dai barconi”, “ce li stiamo portando in casa”, senonché dopo un paio di giorni si è scoperto che il suddetto passaporto fosse falso, messo lì da qualcuno. La notizia ormai non era più interessante e la smentita, che non creava scoop, non ha avuto lontanamente la risonanza dell’errata informazione.
Di nuovo, il lunedì successivo agli accadimenti, si è deciso di rendere omaggio alle vittime degli attentati di Parigi con un minuto di silenzio nelle scuole italiane. Ha fatto molto scalpore il gesto di sei ragazze musulmane studentesse di un istituto superiore di Varese, che si sono allontanate dall’aula durante quel minuto. Subito c’è stata la gara mediatica alla demonizzazione di questo gesto, alla condanna senza possibilità di appello, giudizio sordo che non ha lasciato spazio alla spiegazione e sensibilità di quegli studenti (sono stati ben più numerosi gli studenti che hanno rifiutato il minuto di silenzio nelle scuole, ma la notizia era interessante solo se riferita a sei ragazze musulmane) che hanno espresso il loro disappunto nel rilevare l’ipocrisia di dare un valore differente alla morte, a seconda del luogo in cui avviene.
Questo tipo di strumentalizzazioni è esattamente quello che indebolisce la società, che ci rende prigionieri di diffidenza, paura, insicurezza, e non fa altro che accrescere tensioni e renderci piccoli, fragili e facili vittime delle radicalizzazioni (da tutti i lati). La risposta è il nutrire una sincera curiosità, che non sia superficiale e preconfezionata, ma che sia stimolo all’incontro, alla conoscenza, e a una sana informazione.
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