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Appunti di Cooperazione Internazionale

Reportage dall’ inferno: La fotografa testimone della schiavitù contemporanea

A cura di Davide Garlini

L’ultimo tema di cui ho scritto, nonché forse quello che più mi appassiona, riguarda la cosiddetta modern-day slavery, la schiavitù contemporanea. Una piaga che risucchia e distrugge le vite di circa 30 milioni di persone e di cui sono stati documentati casi in ogni paese al mondo (tranne Groenlandia e Islanda, ma immagino non ci sia bisogno di spiegarvi il perché).

Nell’articolo di oggi vorrei confrontarmi nuovamente con questo dramma ma con un’ottica totalmente diversa. Vorrei momentaneamente mettere da parte i numeri, per concentrarmi sugli individui. Uno dei rischi che spesso si corre quando ci si trova di fronte a drammi come quello in questione è infatti quello di generalizzare, di perdere di vista il fatto che si sta parlando e scrivendo di esseri umani con una singolarità, una storia specifica, un’individualità particolare e una dignità per cui lottare. Se questo vi sembra un concetto banale, una trappola nella quale solo un superficiale o un disinteressato cadrebbe, vi invito a vedere (o rivedere, tanto non c’è mai una volta di troppo) Schindler’s List, il capolavoro di Steven Spielberg e a chiedervi lo scopo della bambina con il cappotto rosso, l’unico tocco di colore in una massa grigia e informe.

Voglio concentrarmi sugli individui, sulle singole vittime che – dalla Thailandia al Ghana, dall’India agli Stati Uniti – soffocano i giorni che gli restano in una nuvola di polvere, fango e sudore. Per farlo non posso basarmi su esperienze personali. Malgrado ne scriva e me ne documenti da tempo, non ho ancora avuto l’opportunità di conoscere personalmente un sopravvissuto. Ho scelto quindi di affidarmi alle immagini, di quelle che davvero valgono più di mille parole, e raccontare la storia di chi le ha scattate.

Come premessa vorrei sottolineare che, nel caso qualche lettore voglia criticarmi per prendere il lavoro di qualcun altro per ingrassare il mio articolo, a ciò rispondo che il percorso di questa persona e i frutti del suo operato vanno raccontati e diffusi. Lasciate che vi faccia il favore di mostrarvi le immagini di cui scriverò, arricchite voi stessi osservandole, tutto qui. La protagonista di questa storia si chiama Lisa Kristine. Anzi, mi correggo! I protagonisti sono gli individui che le sue immagini ritraggono e raccontano al mondo. Lisa è colei che li immortala, colei che si rende testimone della loro esistenza e custode di una dignità che loro sanno ancora di avere, ma che ormai troppo e da troppo viene calpestata.
Lisa è un’attivista, una combattente per un mondo migliore. La sua arma è una macchina fotografica. Ciò la rende, professionalmente parlando, una fotografa. Manco a dirlo, la mia preferita. Le sue immagini muovono al cambiamento, sono scomode in quanto non lasciano mai indifferenti. Per saperne di più >>>

Nel corso della sua carriera Lisa Kristine ha documentato culture indigene in più di 100 paesi sparsi in sei continenti, immortalando intimità, tenerezza e coraggio e stimolando il dialogo e il confronto fra le diverse culture che popolano il nostro martoriato mondo.
“The more meaning born in the images, the deeper the dialogue may be” (“maggiore è il significato che nasce nelle immagini, più profondo sarà il dialogo che ne deriva”). Così lei stessa spiega l’essenza del suo lavoro, il quale mira a graffiare la consapevolezza dell’osservatore e condurlo in un viaggio visuale che diventa analisi dell’esistenza, un’analisi piena di stupore e speranza.

La magia, per quanto paradossale può sembrare, avviene però quando il talento, l’arte e la visione si scontrano con la tragedia. Per Lisa questo avviene nel 2009, durante un viaggio in Nepal che la porta a fotografare una miniera di mattoni, il luogo più vicino all’inferno di Dante che esista sulla Terra. Il caldo è talmente torrido da mandare in tilt il suo equipaggiamento. Ma è proprio quando, una volta tornata al campo base della troupe con cui lavora, piazzato a poche centinaia di metri dalla miniera, Lisa mette la sua macchina fotografica sotto il bocchettone dell’aria condizionata che avviene il cosiddetto turning point, l’ispirazione, il pensiero che cambia una vita: “my equipment is getting far better treatment than these people ever will” (“il mio equipaggiamento sta ricevendo un trattamento migliore di quanto queste persone riceveranno mai”).

La svolta avviene dopo anni di affermata carriera, dopo anni nei quali la sua unica vocazione era il vedere e il fare vedere. Eppure, come lei stessa afferma molto spesso: “non avevo visto”. E come lei stessa afferma: “non potevo crederci”. Comprensibile! Nessuno ci crede quando si tratta di schiavitù, la parola stessa ancor prima del concetto che porta con sé, è associata al passato. Ai greci, agli egizi, ai romani, al traffico di schiavi dall’Africa alle Americhe, a molti secoli fa insomma. Non si comprende che il numero di persone trafficate e successivamente ridotte in schiavitù oggi è infinitamente superiore rispetto a quelle epoche. E quando ci si trova a confrontarsi con questa cruda realtà, come nel caso di Lisa, non ci si crede. Al non crederci però si può reagire in due diversi modi: si può distogliere lo sguardo, decisione infinitamente più comoda, o si può mantenere lo sguardo. Alcuni ci riescono e il mio articolo è dedicato a qualcuno che c’è riuscito in un modo che mi ispira e a cui voglio rendere omaggio.

Una volta digerita la quasi umiliante scoperta che dopo anni di reportage in tutto il mondo Lisa non fosse a conoscenza di questa realtà, la reazione diventa quella di mettere la sua arte al servizio di questa nuova forma di testimonianza. “Se riuscissimo a vederci come membri di un’unica categoria umana, sarebbe molto difficile per chiunque tollerare abusi come la schiavitù”, così Lisa Kristine spiega l’obiettivo della sua seconda carriera, della sua missione. Le sue foto vanno oltre l’età, l’etnia, la religione e raccontano l’uomo per quello che è. La fotografia lo fa per sua stessa natura, trascende le lingue, la classe sociale e il background culturale, è come la musica.

L’obiettivo di queste poche righe non era altro che questo, invitarvi a fare un viaggio ma contemporaneamente sfidarvi, capire se ne sarete all’altezza o se guarderete altrove. Seguite Lisa mentre vi porta a conoscere i bambini del lago Volta, schiavi di 5 o 10 anni che non sanno nuotare e che dall’una del mattino in poi raccolgono reti piene di pesce che arrivano a pesare centinaia di chili. Seguitela mentre vi mostra le miniere d’oro del Ghana e i sepolti vivi che ci lavorano, costretti a rimanere sotto terra fino a 72 ore di fila per poi risalire appesantiti dal materiale, disidratati e a mani nude. Seguitela, o almeno fate uno sforzo per provarci.

Il mio approccio all’umanità è stato migliorato dal lavoro di questa persona e dal messaggio che tenta di diffondere, ritengo che il minimo che io possa fare sia fare del mio meglio per diffonderlo ulteriormente. Se anche solo uno di voi lettori si informerà, osserverà le fotografie e le storie raccontate da Lisa Kristine e, tramite questo percorso, arricchirà sé stesso e il proprio bagaglio di conoscenza, questo articolo avrà il suo senso.

Grazie per aver letto e, mi auguro, grazie per aver guardato.

Un commento su “Reportage dall’ inferno: La fotografa testimone della schiavitù contemporanea

  1. mauro
    1 febbraio 2016

    Difficile non apprezzare questo lavoro anche se non so se possiamo essere partecipi di un così grande dramma mondiale.

    "Mi piace"

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