A cura di Federica Facchinetti
A pochi giorni dal 4 novembre, giorno dell’unità nazionale e delle forze armate, in cui la cerimonia di rito omaggia il milite ignoto, mi viene spontaneo fare una piccola riflessione su come ci poniamo nei confronti di altre persone che hanno perso la vita nel tentativo di creare un futuro migliore per sé e per i propri cari, e di cui si sono perse notizie, di cui non si sono più ritrovati i corpi, o corpi cui non si riesce ad attribuire un nome.
Mi riferisco a tutte quelle persone che fuggono, disperate, dalla miseria, dalla guerra, dalle frustrazioni, dall’assenza di prospettive per il futuro, da persecuzioni, da contesti violenti o comunque invivibili. Fino ad arrivare, per tutti coloro che scelgono la rotta mediterranea per raggiungere l’Europa, di fronte al mare. Quel mare che li separa dal sogno di riscatto, di speranza, di stabilità e serenità che nell’immaginario collettivo si costruisce di pari passo con la decisione di partire. Quel mare che li costringe ad affidarsi all’esperienza di sedicenti traghettatori. Quel mare che giorno dopo giorno, è diventato il cimitero per molti che pensavano di avercela quasi fatta. Quanti sono i dispersi, i corpi di cui non si conosce nome, i nomi di cui non si trova il volto. Ventiquattromila morti dal 2000 al 2014; più di 2800 morti nel 2015. Per saperne di più >>>
Le vittime di questi naufragi non sono soltanto le persone che su quelle barche viaggiavano, ma anche tutte le persone che di loro non hanno più avuto notizia. Madri, padri, fratelli, sorelle, mogli, figli…tutte coloro che oltre all’aver perso il proprio congiunto, non hanno la possibilità di piangere il loro dolore su di un corpo, di rielaborare il loro dolore attraverso i riti funebri propri della cultura. In contesti in cui violenza e instabilità sono all’ordine del giorno, i riti sono spesso l’unico elemento che aiuta a rielaborare gli avvenimenti, le perdite, i rivolgimenti; l’unica certezza dove di certezze non ce ne sono. Dalla consapevolezza che non c’è futuro senza memoria, che non è possibile andare avanti e costruire il futuro di una comunità senza prima rimarginare le ferite aperte, un gruppo di genitori, in particolare madri tunisine e algerine, hanno deciso di organizzarsi per chiedere risposte e riconoscimento di responsabilità in merito alle morti e alle sparizioni dei loro figli. Per saperne di più >>>
Questa associazione ha attualmente in corso delle cause legali in Italia: per chiarire se la polizia abbia effettivamente sparato ad un gommone di migranti nel 2011; per scoprire se i mezzi di soccorso abbiano omesso di intervenire in relazione a un naufragio del 2012 in cui tutti i migranti sono morti in mare. Inoltre l’associazione chiede chiarezza su quanto successo a tutti i migranti del marzo 2011, di cui misteriosamente non c’è traccia in nessun archivio italiano.
In questa loro ricerca di verità, l’Associazione viene anche sostenuta da CarovaneMigranti, che ogni giovedì dalle 18.00 alle ore 19.00, a Torino, Milano, Palermo, Messina e Roma, organizza una marcia per ricordare ed esigere giustizia per i migranti morti e dispersi nel loro viaggio verso l’Europa. Questa iniziativa riprende in qualche modo lo stile di protesta delle Madres de Plaza de Mayo, girando in cerchio con le foto dei nuovi desaparecidos. È un piccolo segno, è la creazione di un nuovo modo di concepire la ritualità, che nasce dall’esigenza di adattarsi agli avvenimenti che il fenomeno migratorio costantemente ci pone.