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Appunti di Cooperazione Internazionale

La logica del campo, mia madre e la terza intifada. Storia da un campo palestinese, in Palestina.

A cura di Stefano Fogliata

“La mia famiglia venne cacciata dal villaggio di ‘Innaba, vicino a Ramle, nel 1948. Se ne andarono con le poche cose addosso, convinti che sarebbero ritornati in poche settimane. Si portarono però appresso le chiavi di casa e i documenti che certificavano la proprietà del terreno su cui era costruita casa”. Casa, per la famiglia Iyed da cui Mohammed proviene, era appunto una piccola abitazione circondata da piantagioni di viti (enab in arabo), che davano il nome allo stesso villaggio. Ora di questo quadro idilliaco non ne rimane che il ricordo: l’intero villaggio di Innaba è stato distrutto dalle forze sioniste durante la Nakba – la catastrofe palestinese-, e delle colline tappezzate a uva non ne rimane che la narrazione dei suoi abitanti.

L’introduzione di Mohammed, tenuta lunedì 26 ottobre davanti a più di circa 100 studenti dell’Università di Bergamo durante un incontro, ricalca la narrazione collettiva dei circa sette milioni di rifugiati palestinesi che oggi vivono lontano dai luoghi abitati per generazioni dalle proprie famiglie. Tutte le regioni del mondo ospitano oggi i discendenti di quelle circa 700.000 persone cacciate da casa tra il 1947 e il 1949: Libano, Giordania e pure la Siria, terra oggi di emigrazione storica, la fanno da padrone per quanto riguarda i numeri dell’accoglienza. Oltre ai paesi confinanti, un gran numero di rifugiati palestinesi sono ospitati negli stessi territori su cui teoricamente dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) sorgere uno Stato palestinese indipendente: circa il 70% dei 1,7 milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati, mentre la cosiddetta West Bank ne ospita circa 700.000. Mohammed appartiene a quest’ultima delle infinitesime “categorie” di Palestinesi disperse per il mondo. Come ripeteva spesso un’amica in Libano: “Palestinese è colui che ha bisogno di ulteriori specificazioni per presentarsi: io sono una rifugiata cacciata dalla Palestina e che oggi vive in Libano dopo essere stata prima dirottata Giordania e poi trasferitasi in Siria. Quando due palestinesi s’incontrano per la prima volta- spesso in luoghi di frontiera come sale d’attesa d’aeroporti, commissariati e dogane, – impiegano l’intera giornata a raccontarsi le traiettorie di vita delle rispettive famiglie”.

Il tracciato della fuga della famiglia Iyed è stato relativamente breve: poche decine di chilometri separano l’area dove sorgeva ‘Innaba e il campo di Am’ari, nei dintorni di Ramallah, dove adesso vive. Un’area inferiore al chilometro quadro dove, a fronte delle poche tende montate dalla Red Cross nel 1950, vivono oggi più di 10.000 persone. Una densità abitativa prossima a quella di New York City, ma con condizioni abitative e di sicurezza non proprio simili.

“L’area del campo- dice Mohammed- è stata presa in affitto dall’ UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati palestinesi in Medio Oriente) e non possiamo costruire al di fuori del confine. Con il passare delle generazioni, abbiamo quindi continuamente costruito piani abitativi alle case già costruite, con grandi rischi per la sicurezza e la salute. La conformazione del campo, con strade strettissime che dividono alte abitazioni fatiscenti, fa sì che i primi piani non vedano mai la luce del sole, con gravi conseguenze per quanto riguarda la ventilazione e quindi per la salute di chi ci abita. Le condizioni abitative stanno continuamente peggiorando perché, a fronte di un aumentato bisogno, l’UNRWA ha tagliato i fondi per l’assistenza, mentre l’Autorità Palestinese delega la questione dei campi alle stesse Nazioni Unite che ora destinano fondi e risorse verso le guerre in Siria e Iraq”.

Mohammed introduce un argomento tanto caro ai rifugiati palestinesi in Palestina, quanto trascurato dai media internazionali a fronte di una dialettica che vede un “unicum” palestinese omogeneo in lotta con l’occupante sionista. Coadiuvato da Ahmad, che nel campo di Am’ari si occupa di sostegno ai disabili attraverso un’associazione creata dieci anni fa, Mohammed rimarca le faglie interne alla popolazione palestinese. Come gli altri abitanti del mukhaiam (il campo), Mohammed avverte e comunica una sorta di celata discriminazione di cui sono in alcuni casi vittime: “Vivere nel campo è un problema soprattutto per quanto riguarda il lavoro: quando vai ad un colloquio e fai vedere la tua carta d’identità, in molti casi ti viene negata l’opportunità perché abiti in un luogo considerato pericoloso e difficile dagli stessi palestinesi”. Il problema della disoccupazione, diffuso in tutta la Palestina, è ancora più sentito dai giovani che abitano nei 18 campi profughi presenti in West Bank. “Spesso ricorriamo a lavori saltuari, oppure alcuni aprono dei piccoli negozi nel campo per poter mantenere le proprie famiglie. Abitare nel campo significa vedersi negate diverse opportunità perché l’Autorità Palestinese delega la loro gestione alle Nazioni Unite.” Rincara Ahmad: “Mahmoud Abbas (il presidente dell’Autorità Palestinese, N.d.A.) dovrebbe ricordarsi di essere lui stesso un profugo!”.

I due giovani condividono la mancanza di un luogo che possa essere per loro casa: nonostante i 67 anni d’esilio, per Ahmad e Mohammed, così come per centinaia di palestinesi, ritornare a casa significa riappropriarsi dei villaggi occupati dall’entità sionista nel 1948.
Proprio per questa volontà mai sopita e nascosta, i campi profughi in Palestina sono sempre stati in prima fila durante i sollevamenti popolari contro l’occupante. “Il campo di Am’ari- ci dice Mohammed- conta ad oggi 75 persone nelle prigioni dello Stato sionista: molti di loro sono bambini, gran parte dei quali trattenuti in regime di arresto arbitrario. Trentuno sono invece i martiri del campo, ammazzati in gran parte durante la Prima e la Seconda Intifada. Alcuni di loro sono stati invece uccisi in episodi singoli, perché l’esercito israeliano occupa regolarmente il campo nonostante esso si trovi in una zona deputata al controllo dell’Autorità Palestinese. Nel settembre 2014 un mio cugino ventiduenne, prossimo alle nozze, è stato colpito al cuore da un proiettile sparato a breve distanza. La sua colpa? Essere uscito in strada mentre i soldati arrestavano un suo vicino di casa. L’hanno lasciato agonizzante 45 minuti per terra prima di far entrare l’ambulanza per soccorrerlo. Il giorno dopo, naturalmente, i giornali israeliani e molti media occidentali parlavano di mio cugino nei termini di un terrorista.”

Mohammed si è smarcato dalla precarietà del campo facendo della narrazione sul campo e sulla lotta per la libertà una vera e propria professione: come altre decine di coetanei, si è focalizzato negli anni nell’ambito della fotografia fino a vincere la Palestine Photo Marathon nel 2013. Il successo gli ha consentito di approfondire la propria professione a Copenaghen e di organizzare nel mese di ottobre alcune mostre tra Francia, Spagna e Italia, dove ha recentemente inaugurato l’esposizione nel municipio di Lecco.

Per queste rassegne ha quindi lasciato “casa” proprio qualche giorno prima dello scoppio di nuovi movimenti popolari di protesta in Palestina, che hanno già lasciato sul terreno più di 50 martiri. Sollecitato in merito alla portata di queste proteste e all’eventuale scoppio di una terza Intifada, Mohammed sembra non avere dubbi: “sono scese in strada migliaia di persone senza alcuna affiliazione politica, uomini, donne e bambini senza legami con partiti. La stessa Autorità Palestinese, nonostante i primi tentativi di bloccare la cosa, si è dovuta defilare considerando il coinvolgimento popolare dal basso. Ero in Europa e, nonostante mi informassi costantemente, non capivo bene cosa stesse succedendo in Palestina. Scorrendo le immagini di vari media locali, ho trovato la foto di mia madre mentre protestava per strada. Lei non è una di quelle che solitamente fa queste cose: se pure mia madre scende in strada, significa che stiamo parlando di una vera Intifada popolare”.

Un commento su “La logica del campo, mia madre e la terza intifada. Storia da un campo palestinese, in Palestina.

  1. Letizia Foglietti
    30 ottobre 2015

    Grazie a Valentina Sella che ci ha dato l’opportunitá di fare l’incontro in unibg con questi ragazzi conosciuti durante le sue esperienze di volontariato ad Am’ari! Sarebbe stato bello sentire anche una sua testimonianza 🙂
    Letizia

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