Lunedì lo staff di Leggerò Leggero ha compiuto una breve incursione nel luogo tormentone della nostra estate italiana: anche noi siamo andati all’Esposizione Universale. L’occasione ci è stata fornita dal lancio internazionale dell’Indice Globale della Fame 2015, un evento al quale siamo stati invitati da Cesvi, curatore dell’edizione italiana dell’Indice e tra i promotori della presentazione.
Nato nel 1985 da un’esperienza di volontariato in Nicaragua, Cesvi è un’organizzazione a carattere umanitario che, senza abbandonare la nativa Bergamo, è oggi presente in 24 paesi distribuiti tra Africa, Asia, America Latina ed Europa, con un totale di 150 progetti che spaziano dall’intervento in situazioni di emergenza alla lotta all’Aids e alla malaria, dalle iniziative in favore dell’infanzia alle campagne di sensibilizzazione rivolte ai giovani europei. Tentare di spiegare cosa Cesvi sia o faccia in questa sede significherebbe mortificare l’ampiezza e lo spettro delle attività che questa Ong porta avanti da ormai trent’anni; se vi incuriosisce sapere qualcosa di più sui progetti in Italia e nel mondo, il consiglio è di dare un’occhiata al sito www.cesvi.org. Un aspetto che tuttavia non si può evitare di menzionare in riferimento a Expo è l’impegno di Cesvi per la promozione del diritto al cibo per tutti, una sfida costante che nel corso degli anni ha portato il personale dell’organizzazione sulla scena di alcune tra le grandi carestie degli ultimi decenni, come quella del 1996-7 nella Corea del Nord.
È all’interno di questa dimensione che nasce la campagna Food Right Now, promossa dal network Alliance2015 (di cui Cesvi è parte unitamente ad altre sette grandi Ong europee) con l’obiettivo di sostenere la lotta alla fame attraverso la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la creazione di una società civile informata e attiva. La partecipazione di Cesvi e Alliance2015 ad Expo e la presentazione in questa sede del nuovo rapporto del Global Hunger Index (GHI) sembrano dunque essere un invito a rifiutare di considerare questi temi come destinati solo agli “addetti ai lavori”: se nulla è più viscerale, profondamente umano del bisogno di cibo, se è vero che nessun uomo, donna o bambino può rifiutare questa natura comune, allora la battaglia contro la fame è una battaglia che non riconosce esclusi, il cibo un diritto che ciascuno è chiamato a difendere.
Il Global Hunger Index rappresenta un importante strumento di analisi dell’evoluzione della fame, permettendo di cogliere le molteplici dimensioni del fenomeno e collocarlo nella giusta relazione con i diversi fattori che possono esserne le cause, quali la povertà, la disparità di genere, i cambiamenti climatici o – focus di quest’anno – i conflitti. Il GHI 2015 è stato calcolato sulla base di una formula rivista, che aggrega in un unico valore numerico quattro indicatori: quota di popolazione denutrita (insufficiente assunzione calorica), deperimento infantile (peso insufficiente rispetto all’età, causato da una carenza di sostanze nutritive), ritardo della crescita infantile (altezza insufficiente rispetto all’età) e tasso di mortalità sotto i 5 anni. L’indice, calcolato annualmente dall’International Food Policy Research Institute, attribuisce un punteggio tra 0 e 100 a ciascuno dei paesi presi in esame (117 nel 2015, ovvero i paesi dove appare rilevante monitorare i livelli di fame e per i quali vi è disponibilità di dati); i due estremi, rispettivamente il valore migliore e il peggiore, non vengono mai effettivamente raggiunti nella realtà, ma racchiudono una gamma di situazioni intermedie che può essere associata ad una scala di gravità. È dunque possibile, sulla base del punteggio calcolato per un paese, valutarne la situazione in merito al fenomeno fame: mentre, per esempio, un GHI compreso tra 10,0 e 19,9 indica un livello di gravità “moderato” (è, tra gli altri, il caso dell’Egitto e del Sudafrica), un valore tra 35,0 e 49,9 rivela una situazione definita “allarmante”, come nel caso dell’Afghanistan.
Nel 2015 i punteggi più alti a livello di aggregati regionali sono quelli detenuti dall’Africa sub-sahariana (32,2) e dall’Asia meridionale (29,4), in continuità con la situazione rilevata negli scorsi due decenni, mentre il GHI complessivo per il mondo in via di sviluppo è 21,7 – con riferimento alla scala di gravità a cui si è accennato, un valore “grave” ma prossimo alla categoria “moderata” (la soglia è a 20,0). Se ragionare in termini di GHI può rendere un po’ complesso farsi un’immagine chiara della situazione, è forse utile presentare i numeri assoluti della fame. Ciò di cui si parla sono 795 milioni di persone che, nel periodo 2014-2016, soffrono di denutrizione cronica (proiezioni FAO), cioè non hanno accesso al consumo minimo necessario di calorie, mentre 212 milioni di bambini dal 2013 hanno presentato ritardo della crescita o deperimento (dati UNICEF). Vale forse la pena, per agevolare il colpo d’occhio, ricordare che la popolazione italiana ammonta a circa 60,8 milioni, mentre quella europea a 508,2 milioni, e che 795 milioni rappresentano circa un nono della popolazione mondiale.
Benché il fenomeno fame mostri proporzioni che sembra riduttivo definire allarmanti – sarebbe peraltro interessante aprire una parentesi sul perché non vi sia, chez nous, la benché minima discussione pubblica su questo argomento – è tuttavia possibile individuare alcune tendenze che sembrano suggerire un progresso positivo. Per quanto, infatti, l’attuale valore del GHI per il mondo in via di sviluppo appaia inaccettabilmente alto, esso rappresenta un calo del 27% rispetto al corrispondente valore del 2000; è possibile, scomponendo l’indice, osservare come tutti gli indicatori mostrino un calo, che raggiunge il 40% nel caso della mortalità infantile. Un’evoluzione, come mostrato dalla figura, che accomuna peraltro tutte le macro-aree.
Una buona notizia? Certo, anche perché mostra la validità di alcune delle iniziative nazionali e internazionali adottate fino ad ora; è forse un po’ più difficile gridare al successo se si pensa che dietro a quella mortalità infantile quasi dimezzata si nascondono ancora oggi circa 3 milioni di bambini morti di fame ogni anno. Il progresso in termini di GHI, che in un paese come il Brasile ha portato alla riduzione record del 71% rispetto al 2000, è dovuto a diversi fattori; assumendo per esempio come case study l’Africa sub-sahariana, possiamo notare come ad un valore molto elevato di GHI si accompagni un tasso sostenuto di miglioramento (il punteggio è diminuito del 28%) legato alla crescita economica, ai progressi in materia sanitaria e alla conclusione di alcune guerre civili che negli anni ’90 e 2000 avevano insanguinato la regione – si pensi al caso del Ruanda, dove il conflitto degli anni 1990-1994 aveva provocato un brusco innalzamento dei livelli di fame. Quest’ultima considerazione apre la strada al contenuto innovativo presentato nell’affascinante intervento di Alex de Waal, direttore esecutivo di World Peace Foundation.
De Waal ha puntualizzato come la fame sia oggi spesso il risultato di violenza e conflitti armati e come alla diminuzione nel corso della storia di questi due fenomeni – Per saperne di più >>> – corrisponda la fine delle grandi catastrofi alimentari (carestie responsabili di almeno un milione di morti) e la riduzione delle grandi carestie, nel corso del XX secolo provocate dall’espansione dei grandi imperi e, a partire dal primo conflitto mondiale, dai sistemi totalitari. Nonostante i trend di lungo periodo appaiano dunque positivi, gli ultimi anni hanno tuttavia registrato un nuovo aumento del numero dei conflitti, che dopo aver toccato il minimo storico nel 2006 è oggi tornato a crescere a causa dell’esplosione di guerre civili caratterizzate da una violenza diffusa, che accrescono il rischio di carestie incrinando i sistemi alimentari e ostacolando gli aiuti umanitari. Tra i paesi caratterizzati da nuovi conflitti ed aumentati tassi di violenza la situazione più grave appare quella siriana, con oltre 200 mila vittime in tre anni e i quattro quinti della popolazione oggi al di sotto della soglia di povertà nazionale (dati Scpr, Undp marzo 2015; l’insufficienza di dati relativi ai parametri interessati impedisce di calcolare il GHI).
Per quanto la guerra non possa essere considerata l’unico fattore in grado di spiegare l’insicurezza alimentare, può tuttavia a ragione esserne considerata una causa importante. Per convincersene è sufficiente osservare come, tra i cinque paesi con i più gravi livelli di fame, solo uno (lo Zambia) presenti una situazione relativamente pacifica, mentre la storia recente di Repubblica Centrafricana, Ciad, Timor Est e Sierra Leone appare segnata da gravi conflitti. Tentare di risolvere la piaga della fame significa dunque innanzitutto sviluppare meccanismi più efficaci per contrastare guerre e conflitti, andando così a fare delle due grandi sfide del mondo moderno una sola esigenza: assicurare ad ogni paese pace e cibo.