A cura di Federica Facchinetti
Nel marasma di allarmismo che la questione “sicurezza” porta con sé, strumentalizzata com’è da moltissimi discorsi politici, vorrei provare a condividere qualche pensiero sul tema delle migrazioni. Sì, perché oramai siamo sommersi di parole che trattano di migranti, invasioni di culture diverse, incompatibilità, integrazione, diritto internazionale, crisi umanitarie. Per saperne di più >>>
Per ore si potrebbe parlare di migrazioni, ma è forse importante fare un passo indietro, fermarsi un attimo e riflettere su come la categoria di “migrante” sia ormai stata de-umanizzata. A volte dobbiamo sforzarci di ricordare che quando si parla di migrazioni, si parla di persone. La dignità delle persone sta nell’essere riconosciuti nella propria umanità, come pari, da altri umani. Riconoscimento che è frutto di un incontro, e genera dialogo. Il dialogo è scambio, e lo scambio genera cambiamento, messa in discussione, ridefinizione di assetti esistenti.
Questo processo è naturale, è il cambiamento fisiologico dei ricambi generazionali, delle sempre più rapide e facili interconnessioni dei vari posti nel mondo, dell’avanzamento tecnologico e scientifico, della globalizzazione. È poco utile pensare di nascondere la testa sotto terra sperando che non affrontare la realtà possa evitare il concretizzarsi delle nostre paure. Per saperne di più >>>
Sempre più frequentemente infatti si creano situazioni di coesistenza di persone con culture differenti. Per capire quanto importanti siano le implicazioni che la società multiculturale pone nei confronti della politica stessa, è necessario avere in mente un presupposto fondamentale, che riguarda la stretta connessione tra cultura e diritto. Ogni cultura infatti si caratterizza per un proprio sistema di valori, per delle concezioni di bene e male, per delle azioni-reazioni condivise tra i suoi membri: da tutto questo scaturiscono le regole del gruppo, le norme di riferimento, e quindi le leggi.
Bisogna infatti essere consapevoli che in alcuni casi questi diversi sistemi normativi che si trovano a coesistere non sono totalmente compatibili, e ci sono degli aspetti che possono addirittura essere in contrasto. È in questi casi che la cultura ha delle ricadute dal punto di vista penale, e se la questione non viene gestita con delicatezza e competenza, si corre il forte rischio di creare degli Stigmi, degli stereotipi verso un gruppo culturale nel suo insieme. Questa responsabilità di saper valutare correttamente una situazione è del giudice, per questo è importante che egli abbia la visione il più completo possibile di quanto è successo. Il giudice è sì interprete della legge (abbiamo sottolineato quanto le norme siano legate alla cultura), ma è anche interprete della società. E se tra questi due elementi non c’è corrispondenza, è proprio compito del giudice di saper mediare, bilanciare i valori in campo.
Non è possibile in questi casi restare ciechi al background culturale della persona che ha commesso l’atto, non è possibile ignorare che ci sono molti fattori che influiscono sulla formazione della volontà nel compiere un’azione. Ma il diritto penale da solo non può certo gestire e risolvere le questioni che una società multiculturale pone. È necessario che la politica si attivi e sostenga una nuova idea di partecipazione democratica alla vita pubblica, in cui tutti i membri di una società, anche le componenti minoritarie, possano trovare spazio. Dando spazio nell’arena pubblica a tutte le diverse concezioni del bene comune, si torna alla radice più profonda del pluralismo, ovvero al rispetto di tutte le diverse posizioni. Dal confronto, come si diceva all’inizio, si creano mediazioni e incontri, un corpo di valori condivisi e riconosciuti da tutti che permettono di sviluppare un senso di appartenenza alla collettività, di lealtà verso il gruppo di cui ci sente riconosciuti, di fiducia nelle istituzioni che sono in questo modo autenticamente rappresentative.