A cura di Stefano Fogliata
La Seconda Nakba in corso.
Da Beirut, dove vivo da più di un anno, mi trovo sconcertato dal silenzio internazionale di fronte alla catastrofe del conflitto siriano, definito come la tragedia umanitaria più grande dell’epoca contemporanea. Non voglio soffermarmi su numeri e statistiche, che già da soli basterebbero per descrivere la portata e l’inestricabilità di un conflitto in atto da quattro anni e che non sembra offrire alcuna prospettiva di fine delle violenze. Mi ritaglio questo piccolo spazio per parlare di una comunità che, come i milioni di cittadini siriani, ha dovuto abbandonare in massa le proprie abitazioni, riparandosi in altri luoghi della Siria o oltre confine. Parliamo dei rifugiati palestinesi che vivevano in Siria dal 1948, l’anno della Nakba, la catastrofe palestinese in seguito alla creazione dello stato sionista in Israele. Parliamo di una comunità che, prima dell’inizio del conflitto siriano nel 2011, contava circa 540.000 persone, gran parte delle quali rifugiatesi attorno a Damasco. Proprio perché in qualche modo marginale rispetto alla portata del conflitto, la drammatica sorte dei Palestinesi di Siria è comparsa in sole tre occasioni sui media internazionali. In tali casi, l’epicentro della violenza si è registrato a Yarmouk, il campo palestinese più grande del medio oriente, che ospitava circa 150.000 abitanti ed era considerato il centro culturale e politico dei rifugiati nel Paese. Nel dicembre 2012, migliaia di palestinesi lasciarono il campo a seguito dei pesanti bombardamenti operati dai caccia governativi. Quasi due anni dopo, le immagini internazionali riprendevano bambini palestinesi agonizzanti a causa della fame, dovuta al blocco totale adottato dal regime siriano. Se questi eventi sono ad oggi finiti sotto traccia, molti ricorderanno quanto successo lo scorso aprile, con alcune fazioni affiliate all’ISIS penetrate a Yarmouk e scontratisi con le milizie palestinesi, compiendo diversi massacri ai danni delle poche migliaia di civili ormai rimaste all’interno del campo, che nel frattempo è ancora assediato dal regime di Assad. Nonostante la dipartita delle milizie legate all’ISIS, la situazione umanitaria rimane oggi tragica, “al limite dell’umano. Tra le esigenze impellenti, l’approvvigionamento d’acqua è oggi uno dei problemi principali: le forze governative hanno tagliato la fornitura di acqua l’8 settembre 2013. Durante questo ultimo periodo, diverse associazioni all’interno del campo hanno scavato decine di pozzi per sopperire al bisogno. Nonostante gli sforzi, l’acqua è spesso di scarsa qualità e rischia di provocare nuove epidemie all’interno del campo.
Yarmouk: da “safe” a “worst” place in Syria.
All’interno di Yarmouk, si moltiplicano le iniziative di solidarietà organizzate dalle associazioni, per garantire almeno un pasto giornaliero agli abitanti. Non parliamo unicamente in termini di supporto alimentare: da oltre un anno, l’aria di Yarmouk risuona al ritmo della musica di Aeham Ahmad, pianista palestinese che trasporta quotidianamente il proprio strumento nelle strade distrutte del campo, per concedere un minimo di sollievo agli abitanti assediati. Le canzoni composte dall’autore non possono che parlare della sfida quotidiana per la sopravvivenza all’interno del campo.
L’infame blocco attuato dalle forze governative rischia di condurre Yarmouk al tracollo totale. La pratica di cingere d’assedio zone nemiche per portarle allo sfinimento, praticata in Siria non solo nel caso di Yarmouk, è un atto inumano condannato da diverse fonti del diritto internazionale umanitario. Tra le tante, l’articolo 17 della quarta Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra afferma che:
“Le Parti belligeranti si sforzeranno di conchiudere accordi locali per lo sgombero, da una zona assediata o accerchiata, dei feriti, dei malati, degli infermi, dei vecchi, dei fanciulli e delle puerpere, come pure per il passaggio dei ministri d’ogni religione, del personale e del materiale sanitario a destinazione di questa zona.”
Com’è chiaro dalla lettura di queste righe, tali disposizioni sono andate completamente disattese completamente nel caso di Yarmouk. La copertura mediatica e gli appelli della comunità internazionale si sono indirizzati solamente sul versante umanitario. Di fronte ad un atto efferato e inumano, è necessario dichiarare apertamente le responsabilità politiche e accusare pubblicamente i colpevoli. Nonostante i proclami di essere il garante dei palestinesi, il regime di Assad è il principale responsabile di questo disastro umanitario. La tragedia di migliaia di persone, sigillate all’interno di un campo, non può ridursi a una questione solamente di emergenza umanitaria. Yarmouk non è vittima di un disastro naturale, ma di un preciso progetto di annientamento che deve interrogare l’intera comunità internazionale. Di fronte ad una tragedia di queste dimensioni, la risposta della comunità internazionale non può limitarsi alla distribuzione di aiuti umanitari (anch’essa inoltre spesso precaria e spesso ostacolata dagli scontri). Una scatola di cartone non ci esime dall’entrare in merito della questione politica del blocco: lo ricorda il pianista Aeham Ahmad che, in compagnia di decine di persone, canta, da dentro il campo, la propria frustrazione verso il mondo che sta fuori. Nella canzone “Mi hanno dato un pacco alimentare e si sono dimenticati di me” gli abitanti di Yarmouk sfidano ogni nostra concezione in merito al significato di aiuto:
“By God I am hungry, hungry, hungry.
Give me a small sandwich, I want a food parcel.
They turned me away, turned me away.
We just want tomatoes, oh brother.”
Tra frontiere e nuove identità.
Le canzoni di Aeham, così come i racconti di vita vissuta dei palestinesi incontrati in Libano, hanno stravolto completamente il modo di percepire la stessa parola “accoglienza”, usata e violentata più che mai in quest’ultimo tempo. Nel solo paese dei Cedri, quattro milioni di libanesi convivono con più di un milione e mezzo di rifugiati: una persona su tre che s’incontra per strada è appena fuggita da una guerra. Mi rimbalzano di rimando le sterili polemiche attuali legate all’accoglienza di alcune decine di miglia di rifugiati nelle nostre regioni. Immaginate un’Italia con 20 milioni di rifugiati? In Libano, la situazione per i palestinesi giunti dalla Siria è perfino peggiore rispetto ai cittadini siriani: in quanto già rifugiati e sotto l’egida dell’UNRWA, non possono beneficiare dell’assistenza e della protezione dell’UNHCR, che ad oggi ha registrato quattro milioni di persone nella sola regione. Ciò si traduce nella vita quotidiana in successivi divieti e discriminazioni quotidiane da parte delle autorità libanesi. Lavoro, visti, assistenza medica e educazione sono alcuni tra i più importanti ambiti dove l’essere palestinese significa essere perfino “l’ultimo tra gli ultimi”, il rifugiato di serie B. A ciò si sommano scontri tra diverse fazioni politiche palestinesi e, in modo ancora più preoccupante, tensioni tra palestinesi che già abitavano in Libano e coloro che sono giunti dalla Siria.
Come reazione e sulla scia di quanto fatto da centinaia di migliaia di siriani: la soluzione per tutti i palestinesi incontrati è l’emigrazione, una nuova ed ennesima rielaborazione della propria strategia di vita attraverso. Rispetto alla retorica collettiva per cui l’unica soluzione al proprio esilio è il ritorno in Palestina, i rifugiati provenienti dalla Siria intravedono l’Europa come via di salvezza. Non si tratta di rinnegamento delle proprie origini e del proprio diritto al ritorno, quanto di una soluzione praticabile nell’immediato per la salvezza delle proprie famiglie. Mi piace concludere con le parole di Mahmoud, padre di famiglia palestinese incontrato nel campo di Borj el Barajneh, vicino a Beirut. Credo che le sue parole racchiudano tutto quanto c’è da dire, e soprattutto quanto c’è da obiettare di fronte a beceri slogan di chiusura delle frontiere. Davanti ad un caffè preparato nella sua stanza, Mahmoud mi confessa:
Quando eravamo a Yarmouk, nessuno poteva immaginare di andarsene. Erano i palestinesi libanesi ad andarsene in Europa, soprattutto in Norvegia e Danimarca. Ora quasi tutti quelli che se ne vanno da qui sono palestinesi dalla Siria. Chiamiamo la rotta attraverso il mare ‘il viaggio della morte’: dalla morte in Siria alla morte in mare.
Noi stiamo cercando solo una strada per andarcene, che sia il Sahara o che sia il mare, per salvare i nostri bambini. Quando arrivano a destinazione, molti di noi mandano messaggi e foto dell’Europa, quasi come fossero rinati! Quando vediamo queste immagini è come sentire che abbiamo ancora una luce alla fine del viaggio. Vediamo una speranza. I nostri fratelli, figli e amici che ora vivono in Svezia, ci dicono che sì, il Medio Oriente è la terra Santa dove sono nati il Corano e la Bibbia, ma che i contenuti di questi libri si verificano in Svezia. La nostra Palestina oggi è l’Europa.
L’ha ribloggato su aresqb.
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