A cura di Chiara Lozza
1978: “If you lift up Khomeini’s beard, you will find MADE IN ENGLAND written under his chin” afferma Moḥammad-Reżā Pahlavī pochi mesi prima di perdere il trono a causa della Rivoluzione Islamica.
2009: “Americans and Zionists are the sole audience of a play they have commissioned and sold out” ribadisce Mahmoud Ahmadinejad, denunciando la responsabilità degli Stati Uniti nell’orchestrare le veementi proteste popolari scoppiate in seguito alle elezioni presidenziali che, in giugno, hanno visto riconfermato il mandato del Presidente tra brogli e violenze. Per saperne di più >>>
Due soli esempi, ma qualora questo articolo venisse pubblicato in un giorno di pioggia il lettore potrà agevolmente, in un solo pomeriggio, rintracciare centinaia di altri casi, affermazioni più o meno esplicite, prodotte da interlocutori più o meno autorevoli, tutte rappresentative di una stessa tendenza iraniana, una pervasiva ossessione per l’intervento straniero. Una linea di pensiero non minoritaria, se persino l’autorevole Encyclopaedia Iranica ha ritenuto opportuno creare la voce Conspiracy theories , a complex of beliefs attributing the course of Persian history and politics to the machinations of hostile foreign powers and secret organizations”. Per saperne di più >>>
Tali teorie appaiono individuare due principali obiettivi: Gran Bretagna e Stati Uniti. In particolare, se la generazione politicamente attiva dal primo dopoguerra vede in Londra il grande potere senza il cui beneplacito non una foglia si possa muovere a Teheran, gli iraniani degli anni Sessanta sembrano rivolgere la propria attenzione ad un nuovo fantasma, quello dell’onnipotenza americana. Da cosa deriva tale cambiamento? In primo luogo, certamente, ha pesato il fatto che l’influenza britannica nel paese abbia perso gradualmente terreno a partire soprattutto dal secondo conflitto mondiale, in favore di una più significativa presenza politico-economica di Washington. È tuttavia possibile individuare un preciso momento in cui il mito americano assume tinte fosche, sostituendo l’immagine idealizzata di una potenza democratica e disinteressata con quella, forse altrettanto eccessiva, di un potere pronto a schiacciare il progresso iraniano nel nome dei propri interessi: questo momento è il 1953.
19 agosto 1953: Teheran vede la caduta del governo guidato da Moḥammad Moṣaddeq, anziano leader del movimento nazionalista e protagonista della lotta contro l’interferenza dell’Occidente, presenza costante che da più di un secolo mina ogni speranza di una piena sovranità iraniana.
L’Iran o, secondo l’antica denominazione, la Persia ha infatti goduto a partire dalla fine del ‘700 di un notevole interessamento da parte, soprattutto, della Gran Bretagna, decisa ad ottenere il controllo politico ed economico dell’Asia centrale. Il fine? In primo luogo, il soddisfacimento dell’ossessione britannica per la sicurezza dell’India. Con la fine del XIX secolo, inoltre, l’influenza indiretta fino ad allora esercitata nei confronti di paesi come la Persia cede il passo ad un’avidità di risorse che porta la Gran Bretagna a negoziare ampie concessioni con gli Shāh, eredi dell’impero di Ciro il Grande, ma afflitti da finanze cronicamente insufficienti. Senza voler tediare il lettore con eccessive pedanterie storiche, basti considerare come Lord Curzon, Viceré dell’India e in seguito (1919-1924) Ministro degli Esteri britannico, descrive la Concessione Reuter del 1872: l’accordo, che consegna ad un privato cittadino britannico il monopolio su miniere, ferrovie e proventi doganali persiani, rappresenterebbe «la più completa resa di tutte le risorse di un regno in mani straniere che sia mai stata immaginata, meno ancora realizzata nella storia». Con l’inizio del nuovo secolo una nuova risorsa è destinata a sconvolgere i rapporti anglo-iraniani: il 25 maggio 1908, nelle vicinanze di un tempio zoroastriano sui monti Zagros, l’équipe del milionario inglese William Knox D’Arcy scopre un giacimento di petrolio. Sono gli anni immediatamente precedenti al primo conflitto mondiale, e nel 1914 la lungimiranza di Churchill permette al governo britannico di acquistare il 51% delle azioni dell’Anglo-Persian Oil Company, la compagnia depositaria della concessione. Non si tratta più ora di lucro privato: l’approvvigionamento di petrolio diviene una questione di rilevanza nazionale, e la Gran Bretagna è profondamente determinata a non concedere una sola goccia di greggio più del necessario.
Con l’esplosione del secondo conflitto mondiale entra in gioco, sullo scacchiere persiano, il secondo attore del masque destinato a consumarsi di lì a un decennio: gli Stati Uniti. Spinta inizialmente dalla necessità di mantenere aperto il corridoio persiano per permettere il flusso degli approvvigionamenti verso la Russia, attaccata da Hitler, nel secondo dopoguerra Washington inizia a cadere preda dell’ossessione per il containment, la necessità di mantenere a freno la nuova minaccia comunista che sembra mettere a rischio la libertà del mondo occidentale. Per saperne di più >>>
L’Iran, confinante con la Russia e da essa tradizionalmente tiranneggiato, debole monarchia – nominalmente costituzionale, di fatto appena uscita da una ventennale dittatura – adagiata sopra giacimenti che potrebbero determinare gli esiti di un’eventuale guerra globale, non può restare esente dalla caccia alle streghe. Tanto più che nel 1951 un nuovo Primo Ministro, insolitamente refrattario ai diktat occidentali, solleva la mano per schiaffeggiare il post-colonialismo britannico, spingendo il Parlamento ad approvare la legge che nazionalizza l’industria petrolifera.
Il Premier è Moḥammad Moṣaddeq, a capo del Governo iraniano tra il 1951 e il 1953, una figura carismatica che affascina tutto il mondo, dal Cairo, dove viene acclamato quale campione anti-colonialista, a New York, dove il Time gli dedica la prima pagina, dichiarandolo uomo dell’anno. Nonostante questa incredibile popolarità, Moṣaddeq vede il numero dei propri nemici aumentare di giorno in giorno. In patria, la situazione di crisi economica causata dall’embargo britannico contribuisce, insieme alla crescente opposizione – in larga parte lautamente finanziata da Londra –, a diminuire il consenso popolare nei confronti del governo, spinto su posizioni progressivamente più autoritarie. Al tempo stesso, sul piano internazionale l’ostinazione adamantina che gli fa rifiutare ogni compromesso che metta a rischio la neonata autonomia iraniana contribuisce ad inasprire l’astio di Londra, alienandogli inoltre le simpatie che Washington, sotto la Presidenza Truman, gli aveva riservato. Quando, dunque, nel gennaio 1953 ha inizio il mandato di Dwight D. Eisenhower, la Casa Bianca si mostra attenta tanto alle lamentele britanniche quanto alle fosche previsioni elaborate dai vertici della CIA, che dipingono Moṣaddeq – un anziano possidente che ha dedicato la propria vita alla lotta alla corruzione e al dispotismo – come probabile pedina sovietica.
La tensione, interna ed esterna, è troppa: dopo pochi giorni di scontri, una sollevazione popolare abbatte il governo, imponendo come Primo Ministro il filobritannico Fazl-Allāh Zāhedī. Il debole Shāh, timoroso antagonista di Moṣaddeq, che ai primi disordini era fuggito a Baghdad torna in Iran, concedendo la propria benedizione al nuovo governo. Si conclude, dunque, quello che appare al mondo come un risorgimento popolare contro un potere tirannico, connotato da una diffusa partecipazione delle masse urbane in nome della difesa dello Shāh, della Costituzione e della religione dalle presunte affiliazioni comuniste del leader.
Ma è davvero così?
Ancor prima che cali il coprifuoco a porre fine agli ultimi empiti rivoluzionari, a Tehran inizia a diffondersi una voce che insinua con insistenza l’esistenza di un complotto straniero, una trama nascosta che sarebbe stata alla base degli eventi di quei giorni convulsi. Quanto tale sospetto sia da attribuire alla radicata convinzione che nessun mutamento politico possa aver luogo nel paese se non in conseguenza di un intervento esterno, e quanto invece esso corrisponda ad una corretta valutazione degli eventi sarà a lungo oggetto di dibattito. Tra le narrazioni nate da questa riflessione, a prevalere è l’ideologia della longa manus occidentale in Medio Oriente, un tema che otterrà molta fortuna in Iran nei decenni successivi al colpo di stato.
Per quanto l’ipotesi di un coinvolgimento anglo-americano – si tratta in realtà, concretamente, di un’operazione interamente realizzata da agenti statunitensi – negli eventi del 1953 sia stata, nel corso del tempo, pressoché all’unanimità trasferita dal piano delle illazioni a quello della Storia, tanto gli Stati Uniti quanto la Gran Bretagna hanno a lungo evitato ogni forma di ammissione formale del ruolo da essi ricoperto nella caduta del governo Moṣaddeq. Mentre, dal punto di vista più strettamente politico, ammissioni generiche in merito al coinvolgimento statunitense nella caduta del governo Moṣaddeq sono state rilasciate nel 2000 dall’allora Segretario di Stato Madeleine Albright e nel 2009 dal Presidente Barack Obama, solo nel 2013 la Central Intelligence Agency ha finalmente acconsentito a declassificare i documenti inerenti a quello che può essere definito senza tema di errore un colpo di Stato. Il principale, dettagliato resoconto degli eventi culminati nel cambio di regime è rappresentato da Overthrow of Premier Mossadeq of Iran: November 1952 – August 1953, una Clandestine Services History, scritta nel 1954 e non intesa ottenere diffusione pubblica, all’interno della quale una sola frase è stata resa nota dall’Agenzia nel cinquantennio successivo; nonostante ciò, nel 2000 il New York Times ha potuto, grazie ad una fonte rimasta anonima, diffonderne online il testo pressoché integrale. Nel sessantesimo anniversario dell’insurrezione il National Security Archive ha invece potuto rendere pubblico il materiale ufficialmente declassificato, o quantomeno quello superstite – secondo la versione ufficiale, infatti, molti documenti sarebbero stati distrutti “per mancanza di spazio” negli anni Sessanta. Per saperne di più >>>
Nonostante, dunque, oggi siamo più vicini che mai alla comprensione dei fatti del 1953 – necessaria per porre nella giusta prospettiva il sospetto iraniano nei confronti degli Stati Uniti – , è nondimeno necessario sbarazzarsi di ogni speranza di raggiungere un’univoca, esaustiva certezza storica: la verità, se ne esiste alcuna, giace sotto decenni di segreti ufficiali e distorsioni che rendono potenzialmente inaffidabili anche le fonti interne all’Agenzia, convinta che una conoscenza globale dei fatti del 1953 possa ancora oggi costituire un pericolo per la posizione internazionale degli Stati Uniti.
The things we did were “covert”. If knowledge of them became public, we would not only be embarrassed in that region, but our chances to do anything of like nature in the future would almost totally disappear. [Dwight D. Eisenhower]
Molto interessante
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