A cura di Luca Martinengo
Nella primavera del 2013 la Turchia fu travolta da un’ondata di manifestazioni.
Le proteste, con epicentro Istanbul, l’ex Costantinopoli bizantina, scoppiarono a margine di un evento che poteva sembrare di dimensioni ridotte e piuttosto circoscritto: un progetto di trasformazione urbana, che prevedeva la demolizione di un parco, il Gezi Park per l’appunto, situato in piazza Taksim, nella zona europea della città. Al posto del polmone verde, le autorità comunali decisero, all’unanimità, di costruirvi un grosso centro commerciale e una moschea, inglobati in un edificio dalle nostalgiche fattezze di caserme ottomane, distrutte dall’ondata modernista del 1940.
Quella che all’inizio apparve a tutti come una manifestazione ambientalista, in realtà, assunse, nel giro di pochi giorni, la forma di una grande protesta contro la politica del governo, guidato dall’Adalet ve Kalkinma Partisi (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, AKP) di Recep Tayyip Erdoğan ed Abdullah Gül.
Le reazioni della polizia nei confronti dei manifestanti si caratterizzarono per essere sin da subito violente ed intransigenti, così come denunciato dal rapporto “Le proteste di Gezi Park: la brutale negazione del diritto di manifestazione pacifica in Turchia”, realizzato da Amnesty International e dal rapporto annuale della Commissione Europea sui progressi della Turchia nel processo di adesione all’Unione, in cui si criticava l’uso eccessivo della forza e l’incapacità di instaurare un dialogo.
Queste reazioni sollevarono un forte malcontento e un profondo senso di solidarietà tra la popolazione, tanto che le dimostrazioni, di giorno in giorno, videro la partecipazione di un numero sempre più ampio di persone. Le proteste si allargarono anche ad altre città come Ankara, Izmir ed Adana, diventando un’occasione, per migliaia di individui e molti gruppi, di poter manifestare pubblicamente, al di là delle divisioni e frammentazioni interne, il proprio dissenso nei confronti del governo.
Come accennato in precedenza, il “primo” motivo delle manifestazioni fu ambientalista, ma,a seguito delle forti reazioni governative, decine e decine di persone decisero di scendere in piazza per denunciare la politica autoritaria realizzata dal governo sin dal 2011. Questo fu l’anno che decretò la terza vittoria elettorale consecutiva dell’AKP, dopo quelle del 2002 e del 2007. Grazie a questo nuovo trionfo e alla limitazione del raggio d’azione dei militari (con il referendum del 12 settembre 2010, indetto per sottoporre al voto popolare delle modifiche costituzionali adottate dal governo, in cu si decretò che le Forze Armate sarebbero state processabili da tribunali civili per le accuse di reati contro la sicurezza dello Stato o la Costituzione e che l’immunità concessa ai responsabili del Colpo di Stato del 1980, sarebbe stata abolita), il Premier tentò di plasmare la società turca secondo i propri parametri.
In particolare lavorò molto per sostituire la vecchia Costituzione militare del 1982 così da poter accentrare il potere nelle mani del Presidente della Repubblica a discapito dell’esecutivo. Per raggiungere tale obbiettivo negoziò con i curdi , minoranza che negli ultimi anni sta aumentando la propria popolarità all’interno del paese, promettendo riconoscimenti ed un certo accentramento politico-ammnistrativo da inserire all’interno della nuova Carta fondamentale.
Inaugurò una stagione di ingerenza statale all’interno della vita dei turchi, in particolare limitando la libertà di stampa ed espressione e perseguendo una politica di discriminazione nei confronti delle donne, “invitate caldamente” a generare tre figli per contrastare l’aumento delle nascite tra la popolazione curda, o tramite l’inasprimento della legge sull’aborto. Per saperne di più >>>
Altro combustibile per le manifestazioni fu la percepita islamizzazione del paese. Un esempio fu la limitazione della vendita degli alcolici dalle 22 alle 6 del mattino, nonché le restrizioni per i luoghi in cui si può trovare la bevanda alcolica: non sarebbero state più concesse licenze per la vendita di alcolici a locali che si trovassero a meno di centro metri da scuole, da centri per la preparazione all’accesso alle università, da dormitori studenteschi e da moschee. Questa legge fece infuriare l’opposizione, che accusò il governò di voler ridisegnare la società secondo la religione.
I protagonisti delle proteste furono ragazzi e ragazze, queste ultime si rivelarono in maggioranza, della cosiddetta “AKP Generation”, cresciuti cioè sotto il governo Erdoğan, gruppi organizzati, tifosi, in particolare il gruppo ultras Çarsi del Beşiktaş, musulmani anticapitalisti, aleviti, LGBT ecc.. che si ritrovarono tutti insieme per far sentire la propria voce contro l’intransigenza governativa.
Piazza Taksim invasa dai manifestanti nella primavera-estate del 2013.
Per avere una descrizione dettagliata dei “giorni della protesta”, vi invito a dare un’occhiata a questa rivista.
L’operato del governo rappresentato dalla persona, forte, di Erdoğan e le azioni delle forze di polizia, fecero sorgere molte critiche all’interno ed all’esterno del paese. Voci provenienti dall’ambito intellettuale e dalle opposizioni inchiodarono l’esecutivo verso le sue responsabilità. Parole dure contro ciò che accadde risuonarono inoltre dall’Unione Europea, che si dichiarò preoccupata per i manifestanti, condannando l’uso della forza da parte della polizia. La Human Rights Foundation of Turkey, oltre ad Amnesty International, elaborò un report dove denunciò i danni subiti dai partecipanti durante le proteste di Gezi Park (Ünüvar, Ümit, Yılmaz, Deniz et al., Medical Evaluation of Gezi Cases, Human Rights Foundation of Turkey, Dicembre 2013). Si può affermare che le resistenze di Gezi Park furono un evento straordinario ed unico, all’interno della storia delle lotte sociali turche. Parte della società civile anatolica ebbe la possibilità di fare esperienza diretta di pratiche di condivisione, solidarietà e cooperazione, trasformando il parco in una “zona comune”, nella quale la riproduzione di strutture gerarchiche fu nulla o comunque fortemente limitata. Nonostante l’assenza di un’autorità centrale, i manifestanti non realizzarono nessuna lotta tra di loro, sviluppando un’idea di rispetto reciproco, facendo fronte comune verso ciò che percepivano unanimemente ingiusto. Furono sperimentati modelli decisionali sia dal basso che orizzontali, grazie ai fora, utilizzati per attuare il dibattito politico e l’attività comunicativa. Gezi venne vista come una “rivincita” del diritto alla città, inteso come possibilità per il cittadino di poter partecipare alle decisioni sulla gestione e regolamentazione degli spazi comuni, precedentemente calpestato dal governo attraverso la sua politica autoritaria. Grazie alle proteste, infatti, il Sesto tribunale amministrativo di Istanbul, in data 31 maggio 2013, decise che i lavori di costruzione del “nuovo” centro commerciale in piazza Taksim dovevano essere sospesi.