A cura di Stefano Remuzzi
“Salam, shalom, good morning, buongiorno, sono Wajeeh Tomeezi, palestinese, abito in un piccolo paese vicino a Hebron, ho 47 anni, 5 figli, e sono titolare di una ditta che lavora nel campo delle costruzioni in acciaio. Nel 1991 ho perso un fratello durante la grande festa dell’Islam ‘id al-adha’ (la Festa del Sacrificio). I militari Israeliani hanno fatto irruzione nel nostro villaggio. I ragazzi allora hanno cominciato a lanciare pietre e i soldati, in risposta, hanno sparato su di loro ammazzando mio fratello di soli 13 anni. Esattamente dieci anni dopo, nel 2001, due dei miei cugini, marito e moglie con un neonato di 3 mesi, stavano attraversando il villaggio in auto quando, alle 9,30 di sera, alcuni coloni israeliani gli hanno sparato addosso uccidendoli tutti e tre”.
“Il mio nome è Rami Elhanan. Ho quasi sessant’anni, sono un designer grafico e la mia famiglia abita a Gerusalemme da sette generazioni. Sono ebreo, israeliano ma prima di tutto sono un essere umano. 32 anni fa il mio mondo si arricchisce di una gemma preziosa, la sera dello Yom Kippur del 1983, una bimba dolce è nata all’ospedale Hadassah, a Gerusalemme. L’abbiamo chiamata Smadar. E’ diventata presto una ragazza molto vivace, sorridente, felice, piena di vita attiva nella nostra famiglia calma e felice.
Il 4 settembre 1997, primo giorno dell’anno scolastico, Smadar e le sue amiche sono andate in centro a Gerusalemme, in Ben Yehuda Street, per acquistare libri per il nuovo anno scolastico. Proprio lì hanno incontrato la morte. Due palestinesi suicidi hanno deciso di farsi esplodere. Con loro sono morte quel giorno cinque persone, tra le quali tre ragazze di quattordici anni. Tra queste Smadar”.
Spesso, attraverso la televisione, i giornali o le trasmissioni radiofoniche, anche nelle nostre case entra un po’ di dolore, un po’ di odio, ma che nel giro di pochissimi giorni lascia spazio all’indifferenza e alla routine quotidiana, scandita da impegni, svaghi, occupazioni, famiglia. Tutto in breve tempo passa e si dimentica. La Questione Palestinese in fondo è lontana, ci interessa quando fa scalpore, quando Israele bombarda Gaza o quando il terrorismo palestinese reagisce agli attacchi.
Purtroppo qualcuno vive la sua quotidianità in un clima di tensione e violenza, dove i morti ammazzati sono all’ordine del giorno, dove ogni mattina i check-point ti obbligano a soste infinite, dove i bambini, da una e dall’altra parte crescono nell’odio reciproco e non sanno cosa sia la parola pace. È l’odio che vince. È la strada più facile, la più immediata, quella che giustifica la vendetta e allora tu, che hai ammazzato mio figlio, devi morire, così come deve morire la tua famiglia e l’intero popolo a cui appartieni.
Molte persone seguono questa strada, la maggior parte, ma esiste anche una minoranza di famiglie che non ci sta a vivere nell’odio e a coltivarlo nelle proprie case come fosse l’unica speranza di sopravvivenza, l’unico modo di crescere i propri figli. Wajeeh e Rami sono due di loro. Un palestinese e un israeliano, un musulmano e un ebreo, che hanno trovato un’alternativa all’odio e alla vendetta, intraprendendo la strada della condivisione e della solidarietà. Così, insieme ad altre 600 famiglie, metà palestinesi e metà israeliane si sono uniti al Parents Circle. Per saperne di più >>>
Palestinesi e israeliani, padri e madri di figli uccisi, hanno dato vita a questa associazione che vuole reagire in maniera diversa al conflitto che da anni colpisce questo pezzo di terra. La finalità dell’organizzazione è promuovere la riconciliazione tra società israeliana e società palestinese. Ogni anno Parents Circle organizza centinaia di incontri che coinvolgono decine di migliaia di studenti israeliani e palestinesi e associazioni di tutto il mondo. Il loro unico obiettivo è far terminare l’occupazione e proporre un’alternativa al circolo di violenza che sta distruggendo due popoli interi. I loro incontri sono in tutto il mondo, e molti sono proprio nella loro terra. Questi, raccontando la perdita di una persona cara e il rifiuto della vendetta, incoraggiano gli studenti a intraprendere un cammino di trasformazione dei propri sentimenti di sospetto, paura e odio verso l’altra parte. In questi incontri non si parla di politica, non si vuole modificare le opinioni degli altri; si cerca di dare un’idea meno semplificata del conflitto, di aumentare la consapevolezza del prezzo pagato da entrambe le parti con la continuazione della violenza e di introdurre l’idea di tolleranza e riconciliazione come strumenti concreti di risoluzione del conflitto. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace.
La forza e la tenacia di questi genitori si rispecchia nel messaggio che portano con loro. La strada della riconciliazione è più tortuosa e sofferente rispetto a quella della vendetta; è piena di buche nelle quali cadere, la cui sola forza per rialzarsi parrebbe quella più facile della violenza e della vendetta. Non c’è risentimento in questi genitori, non c’è odio, non c’è violenza, non c’è vendetta, non c’è rabbia, ma c’è dolore, il dolore di una padre e di una madre che hanno perso i loro figli.
Il dolore accomuna questi due popoli e gli da la forza di resistere insieme, e di dare una speranza al futuro, un raggio di sole tra le nubi fitte dei fumi della violenza.