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Appunti di Cooperazione Internazionale

Spesa militare e nuovi paradigmi di sicurezza ai tempi dello stato sociale

A cura di Giulia Tamagni

Da sempre considerata un argomento scottante se non controverso, il concetto di spesa militare viene spesso utilizzato dagli “addetti ai lavori” per giustificare il denaro e le risorse stanziate dallo stato per la propria sicurezza e quella del cittadino. Facciamo un piccolo passo indietro, senza il quale non si potrebbe nemmeno pensare di farne uno avanti: cos’è la spesa militare? Come si misura?

E’ riduttivo pensare che il burden, ovvero il fardello economico imposto ai cittadini per la sicurezza, consista nell’acquisto degli ormai famosi F35 caccia da combattimento, la cui inefficacia è stata più volte comprovata ma che non hanno impedito al Ministero della Difesa italiano di comprarne novanta modelli, per una spesa prevista di 13 miliardi di euro da estinguersi entro il 2026. Per saperne di più >>>

Una definizione universalmente riconosciuta di spesa militare è data dallo Stockholm International Peace Research Insitute (SIPRI), rispettato think thank globale su questioni riguardanti risoluzione dei conflitti, trasferimento e controllo d’armi, disarmo e, ovviamente, spesa militare. La descrizione che esso ne dà (e della quale mi permetto di farne una sintesi) è la seguente: “la spesa militare mira ad includere tutte le spese correnti dedicate a tutte le forze armate, comprese quelle di peacekeeping, il Ministero e tutte le agenzie coinvolte in progetti militari, tutto il personale, sia civile che militare, agevolazioni per il personale e le loro famiglie, operazioni di mantenimento, eventuali appalti, ricerca e sviluppo, infrastrutture e aiuto in termini di spesa militare della nazione donatrice”. Quest’ultimo aspetto si riferisce in particolare a quanti soldi una nazione mette a disposizione di un’altra per aiutarla nell’approvvigionamento militare.                            Per saperne di più >>>

La definizione di spesa militare è fondamentale per capire una questione di estrema importanza: in nessun modo, la spesa militare per se può essere utilizzata per misurare il livello di sicurezza di una nazione. “Impossibile!” mi sento rispondere molte (troppe) volte. Chi negherebbe di aver pensato anche solo una volta che il paradigma +soldati +armi sia uguale a + sicurezza? Del resto, la storia tristemente contemporanea (sì, contemporanea) della Guerra Fredda ci ha insegnato che la corsa agli armamenti e il progressivo sviluppo di tecnologie militari sempre più avanzate e sempre più letali siano gli unici parametri per misurare quanto una nazione sia sicura da minacce esterne.

La guerra è cambiata. Pensare che la guerra sia ancora una questione legata alla fanteria (cioè ai soldati) e ai cannoni, potrebbe essere fuorviante non solo per capire tutto ciò che è legato alla sicurezza, ma anche per comprendere tutte le politiche internazionali di risoluzione dei conflitti sviluppatesi negli ultimi vent’anni. Infatti, se durante la Guerra Fredda la minaccia era esterna, ovvero fuori dai confini nazionali, ora la minaccia è interna: il terrorismo, di qualsiasi natura e matrice, è infatti diventato il nemico numero 1 di qualsiasi stato, nazione, comunità, etnia e addirittura persona. E’ impensabile, come invece si tende a credere di fronte a tali atti di violenza, cercare di voler combattere “l’ombra” di un nemico con i metodi di guerra alla “Apocalypse Now”: quello che serve in questi casi non sono bombardamenti a tappeto ma interventi d’intelligence, strategia e pianificazione finalizzata all’annientamento della cellula terroristica.

Tornando a noi, a questo punto ci si potrebbe chiedere cosa significhi essere sicuri. Il vero cambiamento nel paradigma di sicurezza lo troviamo alla fine della Guerra Fredda, ovvero agli inizi degli anni ’90. In un mondo via via sempre più smilitarizzato che andava alla disperata ricerca del dividendo della pace, l’idea di sicurezza nazionale cambia definitivamente, iniziando ad assumere forme moderne, legate alle politiche riflesse nel lavoro delle Nazioni Unite. Precisamente, la sicurezza ha seguito fin dalla sua forma embrionale i Millennium Development Goals (MDGs) di cui abbiamo già parlato, ma soprattutto i Sustainable Development Goals nati dalle discussioni durante la conferenza di Rio+20 del 2012. Infatti, se la conferenza è stata un’occasione di rinnovo dell’impegno delle Nazioni Unite e della comunità internazionale per il definitivo e totale sradicamento della povertà nel mondo, è stata anche motivo di profonda riflessione sul perché alcuni obiettivi non siano stati raggiungi, alcuni neppure lontanamente. La mancanza più lampante percepibile anche ad una veloce lettura, è che nessuno degli 8 MDGs è stato concepito per essere attuato in situazioni di sicurezza. Per capire meglio il ragionamento, cerchiamo di creare un’immagine mentale: provate a pensare, se la sicurezza è davvero legata alle armi, in che modo si può finalmente ridurre la fame del mondo con un fucile d’assalto tra le mani. Impossibile, vero? Proviamo invece adesso a pensare di poter finalmente attuare qualche progetto volto a diminuire la mortalità infantile avendo un accesso sicuro e assicurato alle cure mediche, all’acqua potabile, a cibo nutriente, ad abitazioni solide e robuste e magari, in un secondo momento, assicurare l’accesso all’educazione e alla scuola primaria. Sembra tutto più fattibile.

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Spero che questo piccolo esempio sia stato utile per capire in che direzione i nuovi paradigmi di sicurezza si stanno muovendo: cibo, acqua, sanità, lavoro, possibilità di vivere una vita dignitosa e l’opportunità di sviluppare le proprie capacità nella direzione migliore per la nostra esistenza, ecco a cosa tende la nuova sicurezza globale. Solo attraverso questo tipo di sicurezza tutti i progetti trainati dalle Nazione Unite per realizzare i vecchi e i nuovi MDGs saranno effettivamente attuabili.

Che sia finalmente giunto il momento di pensare, o meglio, di ripensare anche al concetto di difesa?

E’ utile ora proporre qualche riflessione sulla spesa militare spostandoci dal piano internazionale ad uno più locale, quale potrebbe essere l’Italia così come qualsiasi Paese al mondo. Il tipo di stato in cui noi oggi viviamo viene definito “stato sociale”: nato dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo stato sociale comprende il complesso di politiche pubbliche dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, tra cui consentire di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istruzione e la sanità. La spesa militare, in questo contesto, gioca un ruolo fondamentale: essendo una delle voci principali della spesa pubblica governativa, i soldi e le risorse spese per attività militari comportano un significativo costo-opportunità. Ma cos’è? Il costo-opportunità in economia è il costo derivante dal mancato sfruttamento di una opportunità, è l’alternativa a cui si deve rinunciare quando si effettua una scelta economica. Tradotto in altri termini, l’aumento della spesa militare toglie inevitabilmente spazio, risorse, capacità e denaro ad altre voci della spesa governativa, come ad esempio la sanità o la spesa privata delle famiglie. Evidentemente, purtroppo, l’aumento delle tasse per rinforzare le fila dell’esercito, imponga alle famiglie restrizioni sulla spesa di beni primari, tra cui appunto sanità, educazione e alimentazione.

Per concludere e per chiarire il discorso legato al costo-opportunità, snoccioliamo qualche numero: la spesa militare globale dell’anno 2013 ammonta a 1747 miliardi di dollari, il secondo anno consecutivo in cui la spesa militare è fortunatamente calata. L’Italia, anche quest’anno, si aggiudica l’undicesimo posto nella SIPRI “Top 15 military spenders”, spendendo circa 32,7 miliardi di dollari per il militare, una cifra che equivale a 30 miliardi di euro, pari all’1,7% del suo PIL. La spesa militare italiana in rapporto al PIL è più o meno in linea con quella di altri paesi europei, ma nel nostro paese, il costo per la difesa è pari a quella per politiche del lavoro e solo di poco più bassa di quella per politiche sociali. Per saperne di più >>>

Consci delle misere condizioni di vita in cui verte l’Italia, per le quali non servono descrizioni, per quanto ancora una spesa militare di questa portata potrà dirsi sostenibile?

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